Il Messaggero, 17 marzo 2020
Intervista ad Amélie Nothomb
Perennemente candidata al Prix Goncourt, ogni anno Amélie Nothomb scrive più libri e poi li conserva dentro scatole di scarpe, placando l’istinto ma non l’appetito. Da poco è tornata in libreria con Sete (tradotto da Isabella Mattazzi e pubblicato dalla casa editrice Voland di Daniela Di Sora) e stavolta, dopo una lunga attesa, al centro della scena troviamo Gesù. Eccolo, un uomo tormentato che vive il rimpianto dell’amore fisico e si strugge per tutti i malintesi che la sua morte, mediante la crocifissione, lascerà nel mondo, interrogando il Padre che si trincera dietro un implacabile silenzio. Il risultato è un libro che si discosta dal filone più lieve (richiamando L’entrata di Cristo a Bruxelles, risalente al 2008) in cui l’autrice belga e giramondo si confronta con il corpo già in Biografia della fame aveva raccontato della propria anoressia senza remore sfoggiando sempre la sua consueta ironia pungente e intelligente, una firma costante negli anni, libro dopo libro che si contrappone al perbenismo di tanta narrativa contemporanea. Un’intervista botta e risposta con una delle voci più amate che firma il suo ventisettesimo romanzo. Una voce controcorrente, lontana dai social, ostinatamente fuori dagli schemi che veste sempre di nero, calca un cappello a cilindro e ha un calice di champagne sempre in mano.
Madame Nothomb, ha dichiarato che con Gesù è stato subito un colpo di fulmine.
«Avevo due anni e mezzo quando mio padre mi parlò per la prima volta di Gesù. Rimasi profondamente colpita dalla storia della sua vita e della sua morte. Mi sono portata dentro la sua figura per moltissimi anni, con la convinzione che, prima o poi, avrei sicuramente scritto di lui. Era inevitabile che accadesse».
Davvero considera Sete il libro della sua vita?
«Sì, assolutamente. Arrivata ai 50 anni mi sono detta che questo era il momento giusto per scriverlo. Se non lo avessi scritto ora, non lo avrei scritto più».
Ama il prossimo tuo come te stesso. Il messaggio dei Vangeli non è convincente?
«Nella massima Ama il tuo prossimo come te stesso c’è un’incoerenza di fondo: è terribile che questa frase venga pronunciata da una persona che accetta di essere crocifissa, perché è come affermare che tutti gli esseri umani sono condannati ad accettare la crocifissione. Tutto questo è contrario al messaggio evangelico, e la cosa mi fa soffrire».
Ma far parlare Gesù, cos’ha significato per lei?
«È stata una grande prova, ma assolutamente emozionante».
Che rapporto ha con la fede?
«La mia famiglia è una delle più cattoliche del Belgio. Per quanto mi riguarda posso dire che credo. Non so esattamente in cosa credo, ma credo. Ho una fede intransitiva».
E lei che rapporto ha con il peccato?
«Il peccato, nella mia versione della fede, è agire contro l’amore, è lasciarsi andare all’odio e al disprezzo».
Ancora oggi è scabroso parlare di corpo, amore e piacere fisico?
«Se viene fatto con pudore, parlarne è ancora possibile. Senza pudore, io non ne sarei assolutamente capace».
Parlare dell’incarnazione dopo aver vissuto l’anoressia, è stata dura?
«L’anoressia mi ha insegnato l’importanza del corpo e della carne».
C’è chi pensa che il coronavirus sarebbe una piaga contro gli infedeli. Il Dio vendicativo del Vecchio Testamento oggi farebbe paura?
«Il Dio dell’Antico Testamento costituisce un problema notevole. In generale nella Bibbia la paternità è una catastrofe!».
Come ha immaginato il rapporto fra Dio e Gesù?
«È una questione molto complicata, molto ambigua. Gesù ama suo padre, ma allo stesso tempo ce l’ha con lui in modo molto profondo; d’altra parte Dio ama suo figlio ma in qualche modo ne è geloso».
Lei non ha mai frequentato i social. Come mai?
«Stare lontana dalla tecnologia è per me una strategia di difesa: ho bisogno di tutelarmi dagli assalti esterni, che sono tanti e ingestibili. Ma è anche una forma di indifferenza, di disinteresse».