Corriere della Sera, 17 marzo 2020
Lettere da Cefalonia prima del massacro
Che malinconia vedere, anche se sono passati 77 anni, la cartolina postale per le forze armate che un ufficiale della Divisione Acqui, il sottotenente Salvatore Randazzere, mandò da Cefalonia al suo bambino a Bauro, nel Ferrarese: «Caro Darietto, siccome qui non ci sono giocattoli per ora accontentati di questi». E il padre disegnò sullo spazio bianco un trenino, un’automobilina, una bicicletta, un ragazzetto che allarga le braccia. «Salutami Baby», aggiunse. La cartolina, con altri messaggi, lettere, biglietti ornati di fasci littori, di stemmi sabaudi, di timbri «Verificato per censura» – sembrano stracci neri di morte – illustrano il libro di Patrizia Gabrielli, docente di Storia contemporanea all’Università di Siena, Prima della tragedia, pubblicato ora dal Mulino, impostato sulle lettere che i soldati della Divisione inviarono alla famiglia negli anni della Seconda guerra mondiale. C’è nel libro anche la riproduzione del biglietto festoso che un soldato, Benedetto Evangelista, scrisse alla fidanzata, a Roma, il 9 settembre 1943, proprio il giorno dopo l’armistizio: «La guerra è finita e presto ritorneremo. Saluti cari a tutti, Betto».
Chissà che destini avranno avuto il papà di Darietto e Betto. Saranno sopravvissuti all’atroce massacro della 1ª Divisione di montagna della Wehrmacht che il 21-22 settembre 1943, nella violazione di ogni legge del Diritto internazionale e dell’onor militare, tralasciando l’umana pietà, fucilarono imbestiati i prigionieri italiani, dopo che si erano arresi, li bruciarono, li straziarono, gettarono in mare i cadaveri? Uccisero tutti, ufficiali e soldati, andarono a prelevarli alla caserma Mussolini, ad Argostoli e ovunque li trovassero nell’isola, dal generale Antonio Gandin, il comandante, all’ultimo soldato. Coi fucili mitragliatori li uccisero, l’uno dopo l’altro, a gruppi di dodici, nel Vallone di Troianata, alla Casa Rossa, a Prokopata, a Capo San Teodoro, a Daphni, a Drapanos, al passo Kolumi, lungo i muretti delle chiuse, nei viottoli sassosi, tra gli ulivi. Si calcola, ma ancora oggi non è del tutto certo, che i caduti della Divisione Acqui siano stati 3.800 sull’isola e 1.360 sulle navi affondate dalle mine mentre, dopo la cattura, venivano trasportati nei lager d’internamento.
Questo di Patrizia Gabrielli è un saggio tradizionale, le lettere a casa dei soldati in guerra sono utili a conoscere qual era il livello culturale di allora. La scrittura sgrammaticata è spesso la regola. Il libro fa intuire che cosa pensano i soldati della povera Italia di Mussolini, un campione dei famosi «otto milioni di baionette». Chi erano quegli uomini?
Nonostante la censura molto attenta, e i soldati lo sanno, filtrano dagli scritti idee, propositi, sentimenti, timori. Il desiderio di andare in licenza, di tornare a casa è costante, come l’attesa spasmodica della posta.
Le lettere dei soldati della Divisione Acqui, i soldati polenta, come venivano chiamati per via delle mostrine gialle, vengono usate nel libro della Gabrielli a brandelli, a spizzichi, a frammenti. Citazioni. Protagonista è un esercito di contadini in grigioverde. «Fatemi sapere com’è andata la raccolta dei bozzoli e quanto li pagano. Spero avranno un bel prezzo», scrive contento Giuseppe Lovisa alla famiglia udinese.
«Ho sentito che mi dici per il maiale che viene bello e la coniglia è bella», scrive Giannino Pucci, contadino laziale.
«Mi dispiace che avete dovuto vendere tre vacche, spero non sarà stato per estrema necessità di denaro, ma come dite valgono molto e il foraggio è scarso», scrive Vito Bellot, contadino trentino.
La preoccupazione costante è la casa, la cascina, il rammarico di chi scrive per le sue braccia che mancano e sarebbero indispensabili.
(Si deduce dalla corrispondenza l’importanza delle donne nei momenti difficili della vita. Madri, mogli, sorelle sono davvero l’anello forte, non solo affettivamente).
«Le lettere», scrive l’autrice del libro, «sono un indispensabile strumento per resistere anche alla separazione dalla comunità di appartenenza, alla solitudine e alla monotonia del servizio militare, alla inattività seguita all’occupazione; sono un mezzo per dare voce ai sentimenti e per ritrovare il valore degli affetti». Patrizia Gabrielli scrive anche: «Le corrispondenze contribuiscono alla costruzione di un mosaico di esperienze, di comportamenti, abbozzano una sorta di autobiografia collettiva».
Su Cefalonia – due giorni dopo Boves, la prima strage nazista in Italia dopo l’8 settembre – sono state scritte centinaia di opere, inchieste, narrazioni, saggi. Tra gli ultimi, fondamentale, Il massacro di Cefalonia, di Hermann Frank Meyer, uno storico tedesco (recensito sul «Corriere della Sera», 27 aprile 2014), pubblicato dall’editore Gaspari, e il diario di un reduce, il capitano Ermanno Bronzini, La battaglia di Cefalonia («Corriere della Sera», 24 settembre 2019), uscito dal Mulino decenni dopo i fatti accaduti. Questo saggio della Gabrielli riempie un vuoto. È la voce dei soldati.
Le contraddizioni della Storia. Siamo nel 1943. Il rancio è magro, la posta non arriva, la licenza è ormai un miraggio. È caduto il fascismo, i bombardamenti stanno distruggendo le città della patria lontana, ma per i soldati della Divisione Acqui quell’estate fu una bella estate. Nuotate nel mare omerico, partite di pallonetto, feste di compleanno. Ancora il 28 agosto, Vito Bellot, scrive così a casa: «Mi pare di essere in villeggiatura invece che sotto le armi».
Non hanno alcun sospetto su quel che accadrà neppure un mese dopo, soltanto un po’ di inquietudine, mascherata, quei soldati «in villeggiatura». Ma al momento opportuno si comportarono con coraggio e valore, dissero no all’ordine di Hitler e dei suoi generali di arrendersi – «traditori», «banditi» —, seppero combattere, vollero farlo, sconfitti soprattutto dagli Stukas.
Sembrava così lontana, non molto tempo prima, anche l’ombra della morte, tra gli ulivi, i mandorli, le siepi di fichi d’India, le ginestre, le piazzette che ricordano il nostro Sud, almeno quello di allora, coi vecchi seduti sulle panchine, la banda che la domenica suonava nella piazza di Argostoli.
Il sangue ha imbevuto ogni zolla di terra della bella isola. E dopo non c’è stato nemmeno un barlume di giustizia.