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 2020  marzo 17 Martedì calendario

Paolino Libralato, l’artigiano delle scenografie

L’ultimo, forse no. Uno degli ultimi, sicuramente sì. Paolino Libralato, artista e artigiano veneto, è l’esecutore di un’arte antica, difficile e affascinante: la pittura delle scene. Nel suo laboratorio a Dosson di Casier, nella zona artigianale a sud di Treviso, cammina su grandi tele inchiodate al pavimento con in spalla una pompa a zaino per dare l’imprimitura con il gesso al «quadro». Poi «squadretta» il tutto, riproduce fedelmente il disegno di bozzetti di scena per opere e balletti e, infine, comincia a dipingere. Sempre in piedi. Muovendosi sopra la tela per «metterla in tinta», cioè per darle i volumi e i chiaroscuri con il colore, e spostandosi dall’alto in basso su una tavolozza con le ruote a mano a mano che il colore si asciuga. 
Un lavoro mastodontico, che richiede fisico e grandi doti artistiche. «Lavoro in piedi e faccio tutto a mano, disegno e pittura, come si faceva un tempo – spiega —: il cavalletto è il pavimento, la matita un carboncino montato su canne di ottone con il manico di legno di un metro e i pennelli lunghissimi perché le tele sono enormi». Libralato ha tradotto i sogni dei più grandi scenografi e registi teatrali. Ha lavorato con Beni Montresor ed Emanuele Luzzati, Mauro Bolognini e Richard Hudson. La sua visione creativa è fiabesca, l’ispirazione classica, il tocco leggero, raffinato e giocato sui rapporti di scala che oscillano fra l’enorme e il minuscolo. Oppure sulle ispirazioni che gli offre la natura. 
«Il mio grande maestro è stato Canaletto. Lui, per primo, ha portato la pittura di scena nei quadri! Gli ho rubato e continuo a rubargli tutto e quando non so cosa fare su un fondale penso ai suoi colori e partorisco lavori dalla luce formidabile». Di origini umili, Paolino, 62 anni, è diplomato in decorazione pittorica all’Istituto Statale d’Arte di Venezia e poi in scenografia all’Accademia di Belle Arti nel 1984. «A casa mia non c’era nemmeno l’ombra dei libri – racconta —. Mamma era casalinga e papà faceva l’operaio. La pittura per me è probabilmente una passione innata. Da piccolo frugavo la terra, guardavo gli alberi, li annusavo perché volevo capire come erano fatti. Ecco perché adesso li dipingo così bene. E quando da ragazzo andavo all’Accademia di Venezia volevo “tuffarmi” dentro i quadri tanto che spesso facevo suonare l’allarme. Non mi bastava guardare. Io dovevo fare, fare, fare. E i professori a dirmi: “Smetti di dipingere, Paolino, sennò ti rovini”». 
Una voglia di fare e una fame di conoscenza che lo porta, nel 1990, a realizzare, a soli 29 anni, quello che nessuno aveva accettato di fare: le scene, enormi e in perfetto stile neoclassico, dell’opera Orazi e Curiazi per il Teatro dell’Opera di Roma. «Nessuno le voleva fare perché ci voleva mano e non c’era tempo: solo una settimana per iniziare e consegnare tutto. Ho lavorato giorno e notte. Quando mi sono presentato all’appuntamento, portando i pannelli di 10 metri in macchina fino a Roma, ho letto il terrore sul volto dello scenografo Luigi Marchione. Ero giovane e sconosciuto, avrei potuto fare un disastro. Il risultato fu così bello che subito dopo mi chiamò Beni Montresor per Il flauto Magico». 
Ora Paolino è alle prese con l’opera Il corsaro, per la quale la scenografa Luisa Spinatelli gli ha commissionato sei fondali da 20 metri per 11. «Sono come dei sudari, composti da più veli. Al pubblico viene istintivo domandarsi “ma che ci sarà dopo?”. Così parte il sogno. Non ho avuto il tempo di sposarmi ma faccio il lavoro più bello del mondo perché nutro l’anima. La mia è quella degli altri. Sa che se fossi nato in Giappone sarei considerato un “tesoro vivente”?».