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 2020  marzo 17 Martedì calendario

Quelli immuni dallo stress

Il loro apparente menefreghismo può mandarci fuori testa. Ma la verità è che ci fanno un po’ di rabbia perché, in fondo, proviamo pura e semplice invidia. Invidia per la loro eccezionale capacità di resistere allo stress, tanto da sembrarne addirittura immuni.
Ognuno di noi conosce almeno un esemplare di questa fortunata «specie». E’ quella persona che niente e nessuno sembra poter far vacillare. Quella che davanti a un esame o a una presentazione di lavoro non cede mai alla pressione e reagisce al meglio. Con sangue freddo. Che cosa renda gli immuni allo stress così speciali è oggi oggetto di ricerca. Le ipotesi in campo sono tante: dai geni all’educazione fino agli ormoni e ai batteri intestinali (a farne una rassegna è stata, tra gli altri, la rivista «New Scientist»).
Gli studiosi hanno cercato l’ispirazione un po’ ovunque: negli orfanotrofi in Romania, nelle sale interrogatori della Carolina del Nord, nelle caserme dei pompieri di Indianapolis e così via. Un lavoro impegnativo, che potrebbe avere risvolti importantissimi. Prima di tutto aiutare le persone più suscettibili allo stress e ai suoi effetti potenzialmente devastanti. Sulla psiche e sull’organismo.
Tuttavia è bene chiarire subito un punto essenziale. Lo stress non è affatto il male assoluto. E’ infatti una risposta fisiologica essenziale, che scatena una cascata di reazioni chimiche nel cervello. Sono quelle di cui ci ha dotato l’evoluzione per consentirci di fronteggiare una minaccia alla nostra stessa vita. E’ quindi utilissimo, quando ci si trova di fronte, per esempio, a un serpente velenoso: consente di reagire e di affrontare, in tempi rapidissimi, a una situazione di pericolo.
Ma a volte la risposta allo stress si accende inutilmente oppure è così potente da sopraffarci e provocare, tra l’altro, un disturbo da stress post-traumatico e depressione. Lo stress, poi, se diventa cronico, può creare una serie di gravi problemi di salute, compresi infarto e ictus. Oppure un aumento di peso e il diabete e, ancora, affaticamento mentale e fisico.
Non c’è dubbio che l’educazione e le esperienze infantili abbiano un ruolo nella resilienza allo stress. Una serie di test condotti sui bambini cresciuti negli orfanotrofi rumeni ha rivelato che coloro che erano stati affidati tardi hanno una risposta allo stress molto più mitigata. Potrebbe sembrare un fatto positivo, ma in realtà appare come il segno di un danno sottostante alla normale risposta allo stress ed è associato a problemi comportamentali di lungo periodo. Altre ricerche, poi, suggeriscono che i primi due anni di vita sono un periodo ultra-sensibile: l’ambiente in cui si cresce può provocare cambiamenti nel cervello che influenzano la risposta allo stress. Quello su cui concordano gli scienziati, infatti, è che sono tre gli elementi su cui si gioca la nostra capacità di resistere allo stress: l’interazione sociale, la stimolazione e il supporto dei genitori. 
Oltre alle esperienze infantili, a giocare un importante ruolo sono anche i geni, in particolare quelli coinvolti nella produzione di una sostanza chimica chiamata neuropeptide Y (Npy). Non si sa ancora esattamente come funzioni, ma alcuni esperimenti su animali suggeriscono che Npy agisca come una sorta di interruttore per la risposta allo stress. Di fronte a una minaccia la produzione sale, contribuendo a stimolare una risposta rapida, ma i livelli tornano poi alla normalità una volta che il pericolo è svanito.
Per valutare il ruolo di Npy nell’uomo gli studi si concentrano sui membri delle forze militari speciali, notoriamente allenati ad affrontare situazioni estreme. E’ emerso che le loro capacità dipendano proprio dai livelli di Npy nel momento in cui è richiesta una risposta immediata all’emergenza e, poi, una riduzione rapida quando la minaccia rientra. Ci sono diverse varianti dei geni Npy: alcune proteggono dallo stress, mentre altre no. E, tuttavia, ci sono indicazioni che i geni non siano gli unici a poter regolare questa sostanza. E’ stato infatti dimostrato in uno studio sui marines che sia possibile arrivare ad «allenare» la capacità di regolazione di Npy tramite specifiche sessioni di «mindfulness».
Un altro aspetto che sembra accomunare gli «immuni allo stress» ha che fare con il senso dell’umorismo. Uno studio sui pompieri condotto dall’Indiana-Purdue University di Indianapolis ha scoperto che chi ricorreva allo humor più spesso aveva meno probabilità di sperimentare alcuni effetti negativi dello stress, prima di tutto depressione e stress post-traumatico. Un ulteriore fattore che influenza la resistenza allo stress riguarda la relazione tra i batteri intestinali e il nostro umore. Diversi studi, infatti, evidenziano differenze significative nei batteri intestinali di chi soffre di gravi condizioni legate allo stress. Le terapie per trasformare gli equilibri del microbiota possono quindi avere un ruolo di «protezione».
Queste evidenze suggeriscono che gli «immuni allo stress» siano benedetti da una combinazione di fattori. Non esiste ancora, però, un profilo ideale, scientificamente valido, per identificare gli individui più «forti». Alcuni team di ricercatori ritengono che riuscire a stabilire un profilo ormonale sarà utile e importante.
Lo stress dev’essere tenuto a bada: senza dimenticare che le giuste dosi potrebbero addirittura migliorare le capacità cognitive. Uno studio dell’Università della California di Berkeley ha scoperto che così viene favorito lo sviluppo di nuovi neuroni nell’ippocampo, quelli che ci consentono di migliorare le capacità di apprendimento. Conclusione: l’ideale sarebbe trovare un equilibrio che consenta di sfruttare lo stress come risorsa, senza soccombere al suo lato oscuro.