la Repubblica, 16 marzo 2020
Fabrizio Gifuni nel carcere di Aldo Moro
Il 16 marzo del 1978 rappresenta un profondo spartiacque nella storia dell’Italia repubblicana. Il rapimento di Aldo Moro e l’eccidio degli uomini della sua scorta danno il via a quei “55 giorni più lunghi del secondo dopoguerra” che segneranno in modo irreversibile la società italiana, le sue istituzioni, le sue forze politiche e le sue culture di massa.
È cruciale, evidentemente, quanto accadrà dopo, a partire da quel 9 maggio, quando il corpo del Presidente della Dc venne fatto ritrovare all’interno di una Renault rossa in via Caetani, a Roma. Ma sono quei giorni del sequestro e dell’agonia – vissuti all’esterno del “carcere delle Brigate Rosse”, come una sorta di preventivo rito funebre – a costituire tutt’ora una drammatica opportunità di riflessione.
Lo ha fatto, in ultimo, Fabrizio Gifuni, mettendo in scena Con il vostro irridente silenzio, costruito con grande sagacia e, allo stesso tempo, con delicatezza, sulla base delle lettere e del memoriale di Aldo Moro. E, infatti, la forza e l’intelligenza dello spettacolo risiedono, innanzitutto, nel fatto che ci parla del durante : di ciò che accade mentre accade. Dunque, non un consuntivo di quell’atroce vicenda né delle sue conseguenze, bensì il racconto del farsi della tragedia e del suo consumarsi.
Qui – è l’intuizione di Fabrizio Gifuni – si palesa una verità. Che solo qui può palesarsi, perché tutto ciò che la cela, la contraffà, la mistifica, passa in secondo piano, si rivela superfluo o miserevole (le speculazioni politiche, le manovre del potere e dei mille poteri, gli interessi di gruppi e di singoli). L’essenza della storia, la sua sostanza più autentica – suggerisce Gifuni – si rivela solo quando si realizzano condizioni estreme. È una tesi contestabile. In quanto è probabilmente un rischio valutare il ruolo e il senso di una leadership o di un progetto politico concentrando l’attenzione sull’atto ultimo e sul momento finale. Quando, cioè, la posta in gioco è rappresentata dal conflitto tra vita e morte, tra vittoria e disfatta, tra salvezza e rovina. Lì certamente la politica trova espressione massima, ma a tal punto deformata dall’eccezionalità che risulta quasi metastorica e metafisica.
L’opera di Gifuni supera questa perplessità, raccontando l’autenticità della politica dell’ora ultima, quella che si manifesta in una sua oltraggiosa nudità. Aldo Moro privato della libertà, e di tutte le guarentigie e i privilegi, le immunità e le mediazioni del suo ruolo, parla (scrive) infine come un uomo solo. Con la sua fierezza e la sua paura, il suo risentimento e la sua disperazione, il suo strazio e la sua fede. Ed è questa condizione di umana nudità che consente l’emergere di una potente verità, che è – a sua volta – una verità della politica.
Sia chiaro: non tutta la verità sulla persona di Aldo Moro e sulla sua vicenda esistenziale e politica, ma una parte essenziale di essa che, probabilmente, solo in quella condizione eccezionale, la prigionia, e in quello stato ultimo che precede la morte, poteva rivelarsi.
Dunque, si oltrepassa d’un balzo l’intera polemica politica – che pure aveva un suo fondo etico di grande rilievo – che spaccò l’Italia 40 anni fa: trattare o non trattare? Seppure il cuore dello spettacolo non sia affatto qui, quel dilemma si libera, tuttavia, di ogni calcolo meschino e di ogni strumentalizzazione interessata per diventare una controversia tra opposte concezioni dello stato e tra diverse idee sul ruolo della persona all’interno dell’organizzazione sociale.
Resta la verità (parziale, come si è detto) di Aldo Moro, a proposito del suo partito, dei dirigenti democristiani, dei loro errori e delle loro pavidità, del Pci e delle gerarchie ecclesiastiche, dello Stato e dei suoi apparati, della storia nazionale e delle sue contraddizioni. La verità, cioè, sulla politica nella sua forma prevalente e persistente di negoziato tra gruppi di interesse e rappresentanze sociali, di amministrazione degli affari pubblici e di raccolta del consenso. Tutto ciò fino a quando un evento imprevisto – una guerra o una strage, una crisi finanziaria o una pandemia – non arriva a rompere la normalità. È allora che lo stato di emergenza rivela ciò che l’ordinarietà dei processi quotidiani tende a oscurare. Per certi versi, è quanto sta accadendo in questi giorni, quando tutti i pensieri e tutti gli atti politici sono gravati dalla eccezionalità della minaccia rappresentata dal Covid19, il virus che sembra non appartenere all’immaginabile e al trattabile delle cose umane. Eppure, non solo la politica ne viene inesorabilmente interpellata, ma addirittura viene chiamata a essere la sola autorità decisionale. Di conseguenza, la politica, come potere titolare dell’interesse pubblico, non solo si gioca la sua residua dignità e ciò che resta della sua ragion d’essere, ma mette in campo la sua stessa sopravvivenza: da come l’Italia (e qualsiasi altro paese) uscirà dall’emergenza dipenderà il futuro assetto del potere e la qualità del sistema democratico. Dunque, lo stato d’eccezione non è solo la circostanza nella quale emerge la forza del sovrano (cioè, di chi detiene il potere e lo sa gestire). È anche l’occasione in cui si misurano le diverse concezioni della politica e i rispettivi fondamenti etici. Per farlo è necessario trovare una lucidità che scorga il futuro laddove sta ancora palpitando il presente. I momenti più crudi e duri della storia possono così essere letti osservando la trama nascosta dalla loro eccezionalità. In questi giorni viene spesso citato il discorso di Winston Churchill davanti al Parlamento del Regno Unito il 18 giugno 1940. Con quelle parole il governo inglese annunciava la decisione di resistere alla Germania di Hitler: «Combatteremo sulle spiagge, combatteremo nei campi e nelle strade, combatteremo sulle colline, non ci arrenderemo mai».
Qui, interviene una associazione mentale estremamente suggestiva. Si sa che Winston Churchill amava recitare Shakespeare a memoria, e c’erano, tra le pagine preferite, quelle del Giulio Cesare. Anche in questo caso vale la precedente avvertenza: giudicare la storia di Giulio Cesare con riferimento esclusivo, o comunque prevalente, al momento del suo assassinio, rischia di alterare in maniera irreparabile la realtà dei fatti e di deformare la fisionomia psicologica di quanti a vario titolo – congiurati e amici rimasti fedeli – animano la scena finale.
E, tuttavia, quanta verità nel testo shakespeariano a proposito del potere e delle sue leggi. Delle relazioni tra la psicologia individuale e quella della folla, tra l’istinto di sopravvivenza e la pulsione di morte, tra la lealtà e il tradimento.
E di nuovo torna l’assillo del presente, l’emergenza e il richiamo imperioso al dopo. Oggi, mentre la tragedia si dipana, durante il suo accadere, si impone la verità della nostra angoscia: «Se uno potesse già conoscere l’esito degli avvenimenti d’oggi! Ma basterà che si concluda il giorno, e tutto si saprà» (Bruto, atto V scena I).