Il Messaggero, 16 marzo 2020
Cina a crescita a zero dopo 44 anni
Nel primo trimestre di quest’anno la crescita economica della Cina potrebbe essere pari a zero, o addirittura negativa. Sarebbe la prima volta dal 1976, dalla fine della Grande rivoluzione culturale proletaria che lasciò il gigante asiatico stremato, come dopo una guerra. Da quel momento, con la stagione di Riforme e apertura e le liberalizzazioni e privatizzazioni incoraggiate da Deng Xiaoping e dai suoi successori, le nuove generazioni (chiunque in Cina oggi abbia meno di 50 anni) hanno conosciuto solo il segno più, seguito anche da cifre doppie nel ventennio Novanta-Duemila. Gli effetti del coronavirus però si abbatteranno anzitutto sul paese dal quale l’epidemia è partita, che nei mesi gennaio-marzo è rimasto sostanzialmente fermo per effetto delle draconiane restrizioni agli spostamenti dei cittadini e dei blocchi alla produzione che hanno permesso di fermare il contagio.
LA RIPARTENZA
Il vice ministro dell’Industria, Xin Guobin, ha fatto sapere che, al di fuori della provincia dello Hubei (l’epicentro del Covid-19), hanno ormai riaperto il 95% delle grandi aziende e il 60% di quelle piccole e medie. Circa l’80% dei migranti una forza lavoro di oltre 200 milioni di persone è rientrato dai villaggi, dove si era recato per il Capodanno, nelle metropoli di residenza. Prima di tornare a lavorare devono rispettare due settimane di quarantena. Gli operai, con la mascherina d’ordinanza, fanno la fila per sottoporsi al controllo della temperatura all’ingresso degli stabilimenti, ma ad attenderli ci sono tempi duri, perché la riduzione della domanda dall’estero causata dalla pandemia avrà ripercussioni pesanti sulla fabbrica del mondo. Inoltre, lo shock per la mancanza di mascherine e materiale protettivo ha fatto riflettere l’Occidente sugli effetti deleteri delle delocalizzazioni e sta inducendo una serie di compagnie a rimpatriare la produzione dalla Repubblica popolare.
Pechino ha spinto per rimettere in moto gli impianti il prima possibile. Il premier Li Keqiang (responsabile della politica economica) ostenta sicurezza e dichiara che un’eventuale crescita zero «non rappresenta un grosso problema». In realtà la leadership sta affrontando la questione con la massima attenzione, perché al primo punto dell’agenda del Partito comunista c’è sempre il cosiddetto «mantenimento della stabilità sociale» (wéiwn): eventuali proteste potrebbero metterne in pericolo il governo assoluto.
Pechino aveva previsto una crescita per il 2020 attorno al 6%, obiettivo mai ratificato, perché i tremila membri dell’Assemblea nazionale del popolo (il Parlamento) che avrebbero dovuto farlo non hanno potuto riunirsi nella Grande sala del popolo della capitale, a causa dell’epidemia.
IL NODO
Li ha assicurato che «non è un grosso problema se la crescita è un po’ più alta o un po’ più bassa», ma ha sottolineato che è necessario «fare del nostro meglio per stabilizzare l’occupazione: quest’anno nel loro lavoro tutti i dipartimenti governativi dovranno affrontare la questione dell’occupazione come la principale priorità». Un brusco rallentamento della produzione e l’aumento della disoccupazione rappresenterebbero un duro colpo per la leadership di Xi Jinping, che al XIX Congresso del Partito (ottobre 2017) dichiarò solennemente due «obiettivi dei centenari»: il primo (a un secolo dalla fondazione del Partito comunista cinese, che ricorrerà l’anno prossimo) è proprio l’avvento di una «società moderatamente prospera», certificata dal raddoppio (rispetto al 2010) delle dimensioni dell’economia nazionale. Per raggiungerlo secondo i calcoli degli economisti quest’anno ci sarebbe bisogno di una crescita del Pil di almeno il 5,6%, un traguardo che sembra irraggiungibile con la pandemia in pieno corso nei due grandi bacini (Europa e Usa) dell’export cinese. La Banca centrale ieri ha annunciato una «varietà di misure» per sostenere il credito alle imprese in questa fase: iniezione di liquidità, riduzione del capitale che gli istituiti di credito devono tenere immobilizzato e dei tassi d’interesse per le aziende. Mentre, per ora, si esclude uno stimolo come quello del 2008-2009, quando il governo varò un piano d’investimenti per 4 mila miliardi di dollari.