Il Sole 24 Ore, 15 marzo 2020
Storia del fiume Tevere
Il primo che si incontra è il Novergese. E su su, fino in cima, quando spunta Giambattista. Uno alla foce, l’altro alla sorgente. Due emblemi di un percorso duro, di una risalita che stordisce nel riannodare cosa è accaduto nei millenni attorno alle sponde, e più in là, e ancora più lontano. Già, perché è parecchia la storia scritta lungo i 405 chilometri del fiume, che forse va percorso proprio a ritroso.
Lo ha fatto il giornalista Marzio G. Mian, che nel suo Tevere controcorrente va anche alla ricerca di quello che è oggi il nostro paese e in fondo la civiltà che è sorta su queste sponde. E trova desolante abbandono, ma anche un universo selvaggio e all’apparenza inesplorato, anche se spesso a un tiro di voce dall’autostrada che si intravede tra la boscaglia. «Vista da qui, dalla foce dove muove il Tevere, l’Italia è in decomposizione» dice all’inizio del viaggio, che parte dal lembo più degradato, abbandonato, dove la Capitale, che tutto inghiotte e digerisce male, e riversa senza scusarsi. E qui Mian incontra appunto il Norvegese – uno dei tanti fiumaroli incrociati nel viaggio – che ripulisce per come può la pista lungo il fiume, libera tratti grezzi ma ciclabili, li intitola a qualcuno. Terra di confine, quella dove il fiume della storia si butta nel mare e crea quell’alone di fanghiglia che si vede atterrando. «L’impressione è che il mare si ritragga, punti i piedi e metta le mani avanti per non accogliere la broda mortale del Padre Tevere».
Un quadro tragicamente coerente con la Mala del Tevere, un mostro dalle cento teste che si muove in un triangolo vasto, «un’enclave occupata dalle mafie, territorio tribale in balia dei banditi, come il Waziristan pachistano», nota alle cronache e raccontata da fiction di successo. Ma la storia corre lo stesso, e anche qui cambierà (tutti si spera in meglio). Sì, perché il racconto della risalita della corrente riporta di continuo ai fasti dell’antica Roma, rievocata in lunghi piani sequenza, che fanno rivivere angoli della città consumati dal traffico o calpestati dalla movida.
Ma il Tevere dentro la città, tra commerci e cloache, è anche fonte di guai, di inondazioni devastanti, come quella del Capodanno 1871, quando Vittorio Emanuele è accolto da uno strato di mota gialla alto mezzo metro e processioni di sfollati che lo insultano. Garibaldi, ancora addolorato per la perdita di Anita a causa di febbri malariche, vorrebbe deviarlo, farlo scomparire alla vista, e farne un polmone verde (idea che funziona, basta andare a Valencia), ma si decide per i Muraglioni, alti dodici metri che corrono per otto chilometri, lavori in 35 anni, costo esorbitante di 105 milioni, forse più del muro che vuole Trump ai confini con il Messico. «Il fiume, ridotto in cattività, incatenato neanche fosse una belva, ingabbiato e tolto alla vista come qualsiasi marrana romana, diventa un profondo canale nel cuore della città che ha generato. La nuova Italia nasce un parricidio sulla coscienza».
E in effetti il Tevere non lo si vede neppure quando si superano i ponti, circondati da solide balaustre. Le sole eccezioni all’Isola Tiberina e davanti San Pietro, dove l’ansa fa da piedistallo al quadro del Cupolone sotto il Gianicolo che, in orario di tramonto, ripaga di molto. Mian risale lento verso le sorgenti, e il pensiero va ai fiumi fratelli nel mondo, primo di tutti il Tamigi, «estensione mitica del Tevere, due fiumi-padre che diventano imperiali, anche se fiumiciattoli rispetto ai mostri della geografia planetaria». Si corre veloci indietro nella storia, alla Storia dei Re di Britannia di Goffredo di Monmouth: fu lui ad attribuire la fondazione di Londra a un certo Bruto, pronipote del troiano Enea, costretto all’esilio da Alba sul Tevere, e tutto si tiene. Di nuovo un salto e si arriva ad Henry James, che visita i fori, sale in Campidoglio e nota che il Tevere «si mostra rapido e sporco come la storia».
Sui fiumi le civiltà hanno fatto sorgere le città più prospere, e il pensiero vola subito al Nilo. Ma c’è una Cairo che non è in Egitto, ma alla confluenza dell’Ohio River con il Mississippi: un tempo città chiave per i commerci di acciaio e mais di tutto il Midwest, e ora città morta, uccisa dal razzismo. Anche questo si consuma lungo i fiumi, fanno la ricchezza ma senza preavviso la tolgono.
Alla fine del viaggio, di gambe e di storia, Mian trova Giambattista, l’ultimo eremita del Fumaiolo, sorgente che un tempo era in Toscana ma che il Duce, di forza appena al potere, volle dentro la sua Forlì. Ma questa è un’altra storia.