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 2020  marzo 15 Domenica calendario

Teatro & contagio. Primo è arrivato Sofocle

Certo, abbiamo mille altre ragioni sanitarie ed economiche per sentirci allarmati e angosciati, e la nostra vita sociale è per molti altri aspetti depauperata. Ma la chiusura dei teatri crea uno strano spaesamento in chi è solito frequentarli. Il problema riguarda in parte anche il cinema, ma un film lo si può vivere anche davanti a un teleschermo. Quella voce che nei teatri viene messa a tacere dal virus è invece voce umana, di persone in carne e ossa, e offre ad altre persone in carne e ossa l’occasione di trovarsi insieme ad ascoltarla. 
Chissà se un giorno un drammaturgo potrà dare un senso a questo silenzio che emana dai palcoscenici vuoti. C’è anche chi quel silenzio prova a riempirlo con letture in streaming, come l’ERT, che ha organizzato una “maratona” sulla Coscienza di Zeno, o il Teatro Pubblico Ligure, che ha avviato una stagione online di Racconti in tempo di peste: ma iniziative del genere, benché meritorie, rischiano di risultare un po’ affrettate e pretestuose. Probabilmente, per aiutarci a capire ciò che stiamo attraversando, ci sarebbe voluto un Heiner Müller, col suo lucido pessimismo, col suo sguardo sconsolato sulle «rovine d’Europa». Müller, che voleva coniugare Brecht con Artaud, un altro che con ceneri e macerie aveva una certa dimestichezza. Chissà cosa avrebbe pensato, Artaud, per il quale la peste era metafora del teatro, di un teatro che investe la sensibilità dello spettatore «con la forza di un’epidemia», di fronte a una peste che dai teatri non dilaga, ma i teatri li fa chiudere. Di fatto, la rappresentazione di contagi e pestilenze risale a tempi ben più antichi, appare già, non senza significato, in un archetipo della nostra cultura quale è l’Edipo re, che inizia proprio col funesto morbo da cui sono decimati i tebani: «il dio che fuoco vibra, l’infaustissima peste, su Tebe incombe, e la tormenta, e dei Cadmei vuote le case rende». Anche per Sofocle, prima che per Artaud, la malattia sembra avere risvolti spirituali, ha origine nella colpa che incombe sulla città. Per debellarla Edipo dovrà interrogarsi, indagare su se stesso. E noi, se tutto passerà, riusciremo a interrogarci su ciò che davvero è accaduto alla nostra civiltà?
Questi problemi etico-sociali legati ai virus si riaffacciano nel teatro di varie epoche. È recentissima, ad esempio, la messinscena firmata da Massimo Popolizio per lo Stabile di Roma di un dramma ibseniano, Un nemico del popolo: qui l’infezione è solo prevista, annunciata dalla scoperta che nelle tubature di uno stabilimento termale scorre acqua inquinata, ma è attualissimo il contrasto fra tutela della salute e interessi economici, fra la necessità di chiudere le terme e l’opposizione del sindaco e della popolazione che non vogliono perdere il benessere acquisito.
Ancora più cupamente vicino al nostro panorama di oggi è un testo di Giovanni Testori, Gli angeli dello sterminio, nato in forma di romanzo ma portato in scena tre anni fa da Renzo Martinelli e Francesca Garolla: Testori vi dipingeva una Milano devastata da un’ignota Apocalisse, una specie di castigo biblico che si abbatte sulla metropoli indifferente e disumanizzata invadendo le strade con mucchi di cadaveri e arrivando persino ad abbattere la cattedrale. 
I toni biblici, mescolati a una truce ironia, non mancano certo in quello che resta per eccellenza il più potente affresco sul flagello dell’Aids, Angels in America, riproposto a più riprese dal Teatro dell’Elfo. Le due parti della pluripremiata saga di Tony Kushner evocano una specie di gigantesco rito di purificazione, il ciclo di condanna e redenzione che colpisce una società corrotta e smarrita, sconquassata dal venir meno di ogni identità politica, religiosa, sessuale. Altri testi realizzati negli scorsi anni affrontavano la materia traendone acri suggestioni simboliche. Il gioco dell’epidemia, un’opera minore di Ionesco, allestita nel 2003 dal Teatro Arsenale di Milano, immagina una città colpita all’improvviso da una pestilenza che falcidia gli abitanti. Non è un capolavoro, ma tratteggia con estro profetico un’umanità ottusa di fronte alla catastrofe imprevista, politici che fanno annunci demagogici, medici che si ammalano a loro volta mentre accusano la popolazione di avere scarsa fiducia nella medicina.
Cecità, dal romanzo di José Saramago, adattato e diretto nel 2004 da Gigi Dall’Aglio, descriveva la perdita della vista che contagia un’intera collettività, allegoria di un regime autoritario che rinchiude la gente in quarantena nei manicomi, mentre i supermercati sono ridotti a cimiteri. E uno dei primi spettacoli di Nekrosius approdati sulle nostre scene era incentrato sulle Tre piccole tragedie di Puškin, fra cui spiccava il Festino in tempo di peste. In questo giro d’orizzonte non può mancare qualche riferimento manzoniano. Da ricordare una bella trasposizione di Silvio Castiglioni e Giovanni Guerrieri, anno 2003, della Storia della colonna infame, asciutta, modernissima. E resta nella memoria l’emozionante finale dei Promessi sposi con le marionette dei Colla, il Lazzaretto, i monatti fra i cadaveri e i nembi neri che si accumulavano in cielo riversando infine la finta pioggia (fatta di migliaia di perline) che ripuliva l’aria come una liberazione, come un segnale di speranza.