La Stampa, 15 marzo 2020
Biografia di Don De Lillo
Qualche anno fa, dopo un lunghissimo corteggiamento, Don DeLillo accettò di partecipare alle «Conversazioni», e venne a Capri a patto di non essere fotografato: non si trattava di una richiesta divistica, ma la confessione di una timidezza estrema. Sin dall’arrivo si rivelò affabile con tutti, e grato per il rispetto della parola data. Il suo evento fu affascinante per profondità e autorevolezza, e nel discutere del rapporto tra etica ed estetica parlò di fatti mostruosi che avevano tuttavia una bellezza estetica, come il fungo atomico: la lucidità del suo ragionamento andava di pari passo con lo sgomento della conclusione. Il giorno successivo, prima di partire, invitò me e Davide Azzolini, co-direttore del Festival, a farsi immortalare in una foto, dove campeggia con l’immancabile berretto da baseball e i faraglioni sullo sfondo. Racconto questo episodio per sottolineare altri aspetti della personalità di Don: la profondità di riflessioni che non hanno paura di scandalizzare, e la necessità irrinunciabile di avere un rapporto di lealtà con l’interlocutore, che ripaga sempre con grande generosità.
In seguito Don ha accettato di venire anche alla Festa del Cinema di Roma, dove ha parlato di Deserto rosso. Riuscì a celebrare l’importanza del film pure per gli spettatori più scettici, a cominciare dal sottoscritto. L’elemento che colpì tutti fu la competenza con cui parlò della composizione delle inquadrature: Don è appassionato di cinema, specie di opere che elaborano, anche sperimentalmente, le immagini, come lo Psycho di Douglas Gordon, estenuato sino a 24 ore. «Il futuro appartiene alle folle», mi disse, ed ebbi la sensazione che lo affermasse con amarezza, specie se lo si mette in parallelo con quanto ha ripetuto spesso in pubblico: «Lo scrittore è la persona che sta fuori della società, indipendente da ogni affiliazione e da ogni influenza».
La sua è una concezione anti-ideologica, che trova le proprie radici nell’educazione ricevuta dai gesuiti, fondata sul principio che il «cristiano è nel mondo ma non del mondo». Non è praticante né osservante, Don, ma quella formazione è rimasta imprescindibile, e ne sostanzia ogni aspetto esistenziale e narrativo, come si ricava in particolare dalla raccolta L’angelo Esmeralda. Nel suo capolavoro Underworld scrive che «anelare al massimo livello fa la storia», un’affermazione sintomatica per comprendere come la riflessione sul tempo e lo spazio abbia una dimensione in primo luogo etica, in linea con gli insegnamenti dei gesuiti. Don contempla la storia sub specie aeternitatis e sostiene che esista «una relazione tra i progressi della tecnologia e il senso di paura ancestrale che la gente sviluppa in reazione a essa». Una concezione che tuttavia non lo frena dal partecipare al dibattito intellettuale: «Gli scrittori devono opporsi al sistema. È importante scrivere contro il potere, le corporazioni, lo Stato e l’intero sistema di piaceri che ci debilitano e consumano. Gli scrittori devono, per loro stessa natura, essere all’opposizione e contrastare ogni potere che tenta di imporsi su di noi».
Gran parte delle sue scelte e prese di posizione nasce dopo essersi consultato con la moglie Barbara, architetto di giardini di origine texana con la quale vive in simbiosi e con cui scherza costantemente sulle rispettive diversità di origine. Donald Richard De Lillo, questo il nome completo, è nato nella Little Italy che si sviluppa intorno ad Arthur Avenue nel Bronx. Discende da una famiglia di immigranti molisani e racconta che la nonna «non ha mai imparato l’inglese nonostante abbia vissuto cinquant’anni in America». Da piccolo passava intere giornate a giocare a baseball per strada, improvvisando poi per gli amici radiocronache immaginarie. Erano già in nuce due elementi fondamentali della sua personalità, la passione per il più americano degli sport e la leggendaria partita tra New York Giants e Brooklyn Dodgers rievocata in Underworld: anche in quel caso, il racconto dell’home run con cui Bobby Thompson portò al trionfo la sua squadra è estenuato e dilatato nel tempo.
Il baseball è tuttora l’argomento principale delle discussioni con Paul Auster, e lo è stato per molti anni con Philip Roth, al quale Don è stato legato da una profonda amicizia, nonostante occasionali rivalità: nel 1997 Underworld fu finalista al Pulitzer insieme a Pastorale americana, e fu quest’ultimo a prevalere. Tra i maggiori scrittori, Don è colui nel quale l’amore per il grande cinema è maggiormente presente, specie quello degli anni 60: insieme ad Antonioni è appassionato di autori che hanno rivoluzionato la narrativa, quali Altman, Godard, Kubrick e il Bergman di Persona. È lui stesso ad affermarlo, spiazzando i tanti colleghi che considerano il linguaggio delle immagini come una forma espressiva inferiore: «Da piccolo non pensavo che il cinema, specie quello americano, potesse esse arte, ma oggi so che molta della mia scrittura nasce da lì».
Non meno importante l’influenza della musica jazz, specie quella più sperimentale, come nel caso di Ornette Coleman, ma è in grado di parlare con competenza di Miles Davis, John Coltrane e Charles Mingus. Ha reagito lusingato quando Harold Bloom lo ha inserito nel pantheon letterario con Philip Roth, Thomas Pynchon e Cormac McCarthy, ma nel momento in cui il critico lo ha definito uno «scrittore postmoderno» ha dichiarato: «Sono uno scrittore, punto. Uno scrittore americano». Come modelli letterari aveva in mente agli inizi della carriera Flannery O’Connor ed Ernest Hemingway, autori di cui tuttora ama il rapporto tra etica ed estetica. Per molti anni è rimasto relegato nella nicchia degli autori di culto, e solo con Rumore bianco e Libra ha raggiunto anche il successo commerciale: «Non avevo alcuna ambizione, né desiderio bruciante di raggiungere qualche risultato artistico: ci ho messo anni a capire cosa significasse essere uno scrittore autentico».
Rumore bianco vinse il National Book Award, e quando scoprì che doveva pronunciare un discorso Don salì sul palco e disse: «Mi dispiace non poter essere con voi stasera, ma grazie per essere venuti». Il pubblico esplose in una risata, ma nelle sue parole, oltre all’ironia, era riflesso ancora una volta l’insegnamento cristiano del non essere parte del mondo in cui si vive: un’idea che ha affrontato anche recentemente in Punto Omega, dove ha riflettuto sugli scritti del gesuita Teilhard de Chardin.
In questi ultimi anni alcuni romanzi sono stati adattati sullo schermo, e per Cosmopolis si è spinto sino a fare il tappeto rosso a Cannes: decise di seguire il film perché ama molto i festival cinematografici, ed è un habitué di Telluride, dove evita ogni mondanità e vede per tutto il giorno vecchi classici. Recentemente è stato insignito di innumerevoli premi letterali, ma quello che colpisce maggiormente è che sia diventato il soggetto di omaggi e citazioni, non solo in campo letterario. Se Paul Auster gli ha dedicato il romanzo Nel paese delle ultime cose, è possibile trovare riferimenti a lui in un film come Ricatto d’amore, dove un personaggio rischia la deportazione pur di incontrarlo, e inoltre in ben due gruppi rock, commedie musicali, blog reali e inventati e, ovviamente, molti romanzi.
Don sorride davanti a questi riconoscimenti e si limita a parlare della difficoltà di essere uno scrittore: «Oggi, per un giovane, è molto più difficile di quando ho debuttato: gli editori rischiano meno e gli scrittori, consapevoli di un mercato ristretto, si comportano fin troppo bene». A differenza di Roth, che nel finale della vita leggeva esclusivamente libri storici e biografie, Don sostiene che «il romanzo permette a uno scrittore l’opportunità più grande per esplorare l’esperienza umana: per questo leggere un romanzo potenzialmente è un grande atto, offrendo al lettore la possibilità di conoscere meglio il mondo, compreso quello della creazione artistica».
A novembre compirà 84 anni, ma scrive con la passione di un debuttante, e quando vede la stanchezza sul suo corpo ripensa a quello che ha scritto in Underworld: «Anelo i giorni del disordine. Li rivoglio indietro, i giorni in cui ero vivo su questa terra, creando increspature nella mia carne viva, ed ero distratto e vero. Ero debole, arrabbiato e autentico. Questo è ciò a cui anelo, la rottura della pace, i giorni disordinati, quando camminavo in strade vive, facevo cose affrettate ed ero sempre infuriato e pronto, un pericolo per gli altri e un mistero per me stesso».