La Stampa, 15 marzo 2020
Il boom di ascolti di "Pretty Woman"
Il 5 marzo, quando l’emergenza Coronavirus ancora era all’inizio, Rai Uno ha mandato in onda in prima serata Pretty Woman. Alla sua 28esima replica televisiva, il film con Julia Roberts e Richard Gere ha vinto la gara degli ascolti con quasi quattro milioni di spettatori (cifra esatta: 3.806.000) pari al 15.7% di share mentre Chi Vuol essere Milionario? su Canale 5 si fermava a 2.013.000 spettatori, il 10.3% di share. Se è vero che in tempi incerti come questi la tv è un po’ come il comfort food, rassicurante e familiare, è anche vero che il successo del film dura da decenni, rinvigorito due anni fa da un musical che dopo un anno a Broadway è appena giunto nei teatri di Londra, nel West End.
Pretty Woman uscí sugli schermi americani il 23 marzo del 1990, in Italia pochi mesi dopo. Da allora è diventato il film simbolo di una certa commedia romantica intelligente e di buon gusto, recitata bene e diretta alla perfezione. E pensare che non era neanche nato così. Scritto dall’allora giovane sceneggiatore J.F. Lawton, Pretty Woman aveva in originale una sceneggiatura molto piú dark, con forti elementi di critica sociale e soprattutto senza il lieto fine poi diventato tanto famoso e amato. Conosciuto con il titolo iniziale di 3000, era un racconto molto crudo e poco edulcorato, una «favola oscura – secondo le parole dello sceneggiatore stesso a Vanity Fair in occasione del venticinquesimo anniversario - su un’America distrutta finanziariamente e sul pericolo di far assaggiare la bella vita a persone che non l’avevano mai vissuta prima».
Colpito dall’uscita nel 1987 di Wall Street, il film di Oliver Stone sull’aviditá del mondo della finanza newyorkese, Lawton decide di scrivere la sua versione, mettendo al centro della storia un finanziere che fa a pezzi non solo compagnie più piccole, ma anche la vita delle persone che bene o male sono il frutto di quella economia. «In un certo senso l’idea era di far incontrare uno squalo della finanza con una delle sue vittime». Molte delle scene che negli anni hanno reso il film un classico – lo shopping di Vivian con le commesse che la trattano male; la scena nella vasca da bagno quando canta con le cuffie in testa; la serata all’opera; la partita di polo – erano già presenti nella versione originale, così come tutti i personaggi, ma il tono complessivo e il finale no. Nella prima stesura di Lawton e in quelle successive, almeno fino a quando il film non viene acquisito dalla Disney, Vivian e Edward non finiscono insieme. Con i soldi ricevuti dalla settimana con lui, Vivian sale su un autobus insieme all’amica Kit. L’ultima immagine è un’inquadratura del volto di Julia Roberts, mentre si allontana da Los Angeles. Nessuno salva nessuno, quindi. Ognuno torna al proprio destino.
Il finale da fiaba è merito un po’ della Disney stessa, un po’ del regista Garry Marshall, appassionato di buoni sentimenti. «La mia visione era una combinazione di fiabe – ha spiegato -. Julia come Rapunzel, Richard come il Principe Azzurro e Hector come la fata madrina». All’inizio nessuno ne vuole sapere, ma poi Marshall ha la meglio. Parte della motivazione al finale romanico viene dai due protagonisti e dalla chimica istantanea che scatta tra la ventiduenne Julia Roberts – già candidata all’Oscar per Fiori d’acciaio - e il divo Richard Gere, reduce dai successi di Ufficiale e gentiluomo e American Gigolo. Avessero avuto la meglio i due attori a cui originariamente era stata offerta la parte – Al Pacino e Michelle Pfeiffer – il film avrebbe sicuramente avuto un finale più cupo, meno da favola. Ma forse non sarebbe diventato il fenomeno che è oggi, un film che non delude mai, che tiene compagnia quando i tempi sono incerti e difficili e quando tutto quello di cui abbiamo bisogno è una favola raccontata bene.