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 2020  marzo 15 Domenica calendario

Cos’è l’«immunità di gregge»

La cosiddetta «immunità di gregge» è un meccanismo per cui, quando la maggior parte di una popolazione è immune nei confronti di un’infezione (perché l’ha contratta o è stata vaccinata), l’agente patogeno non trova soggetti da infettare, rendendo protetti per via indiretta anche i pochi che sono ancora suscettibili. 
L’immunità di gregge non viene indotta volontariamente lasciando ammalare il maggior numero di persone (come prospettato per il Regno Unito da Boris Johnson), è piuttosto un obiettivo da raggiungere tramite le campagne vaccinali che, dopo la prima ondata di un’epidemia, all’arrivo del vaccino vengono condotte a tappeto a partire dal personale sanitario, fino ai soggetti a rischio o più deboli. 
Quali successi ha portato questo meccanismo?
«Il successo più importante è stato quello contro il vaiolo – risponde Paolo Bonanni, professore di Igiene presso il Dipartimento di Scienze della Salute dell’Università degli Studi di Firenze – sparito raggiungendo circa l’85 per cento di copertura vaccinale a livello mondiale, incluse le aree più remote. Non è facile arrivare all’immunità di gregge, nemmeno quando c’è un vaccino, ancor più difficile è l’eradicazione totale di una malattia. La copertura vaccinale deve essere alta dovunque e se i virus con cui abbiamo a che fare (come il coronavirus) vengono dal mondo animale, la completa eliminazione è pressoché impossibile. Il vaiolo era un virus solo umano. Anche la poliomielite lo è, infatti è stata quasi totalmente debellata».
Puntare su un’immunità di gregge «spontanea» è rischioso? 
«Significherebbe lasciare circolare il virus senza misure di contenimento e avere un carico di morti intollerabile, per non parlare della situazione degli ospedali. Noi tuteliamo prima di tutto la vita umana con le armi a disposizione e per ora abbiamo solo l’isolamento e il distanziamento sociale. Con un virus di tipo nuovo entrano in gioco anche variabili sconosciute: non sappiamo se l’immunità sarà permanente e, anche se lo fosse, dovremmo valutare se il patogeno muti, come fa l’influenza».
Quante persone dovrebbero ammalarsi (o meglio, vaccinarsi) per arrivare all’immunità di gregge?
«Il numero dipende dagli agenti patogeni e dal loro “valore di R0”, la contagiosità o “tasso di riproduzione”, cioè quante persone ogni infetto è in grado di contagiare. Con il morbillo, che ha un Ro di circa 15, bisogna raggiungere coperture altissime perché bastano poche persone per continuare la trasmissione». 
E con il coronavirus? 
«Bisogna che Ro sia inferiore a 1, proprio perché questa soglia significa che una persona ne contagia meno di una e il virus si estingue. Nel caso del coronavirus, ponendo un Ro di 3 la formula (1-1/Ro) porta ai due terzi della popolazione, il 66 per cento». 
Come capire se il 66 per cento della popolazione è diventato immune?
«Non si può capire in questa fase, lo facciamo alla fine dell’epidemia: servono indagini siero-epidemiologiche. Si prende il sangue da un certo numero di persone (migliaia) e si verifica quanti hanno sviluppato gli anticorpi». 
L’immunità sarà permanente?
«Dopo le più comuni infezioni da virus di solito si sviluppa immunità permanente: il morbillo si prende una volta nella vita».
Quando i contagi caleranno, con la revoca delle misure restrittive ci infetteremo di nuovo? 
«Dobbiamo mantenere un livello di sorveglianza tale da poter monitorare i pochi contagi che potrebbero esserci di nuovo, in modo da isolarli. La guardia non va abbassata subito dopo aver passato il picco, ma mantenuta ancora per tempi relativamente lunghi». 
Senza l’immunità di gregge, il virus ci colpirà nuovamente in autunno? 
«Abbiamo l’esperienza del virus H1N1 di dieci anni fa che era una pandemia (anche se con conseguenze modeste): ci aspettavamo un’ondata massiccia in primavera (si era sviluppato in novembre) ma non ci fu. Adesso è fondamentale guadagnare tempo per consentire di sviluppare un vaccino, la risposta definitiva».