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 2020  marzo 15 Domenica calendario

Traballa la globalizzazione

Al terzo o al quarto tentativo, la globalizzazione, quella lunga stagione non solo economica che abbiamo vissuto, sta capottando. Vacillava da tempo: prima la crisi finanziaria del 2008, poi quella dei migranti in Europa nel 2015 e quindi la guerra commerciale tra Washington e Pechino. Ora, il virus che non è più solo questione di soldi, di poveri della terra, di navigli senza merci: è guardie di frontiera, aerei messi a terra, Schengen sottosopra, persone impedite. Il movimento per il mondo non è più avere un buon passaporto, qualche volta è un certificato medico ma ogni giorno di più è un’illusione che durerà mesi. I muri che già si alzavano ora trovano la giustificazione perfetta: per il nostro bene. Si tornerà, alla fine, come prima? La frase che corre è «niente sarà più uguale», per lo più detta per affermare che dopo il virus saremmo più amici, più solidali. Tra persone e tra Paesi. 
Forse. Ma forse no. L’ultima globalizzazione che è crollata, quella degli ultimi decenni dell’Ottocento e i primi anni del Novecento, è finita in tragedia nel 1914. E solleva una questione che il mondo deve porsi subito, all’inizio e nel pieno della crisi: possiamo, un secolo dopo, evitare che Wuhan sia la Sarajevo del XXI Secolo, diversa, senza trincee e milioni di morti ammazzati ma nondimeno distruttiva dei rapporti tra Paesi? Si può evitarlo, ma va deciso. 
Quando la Danimarca chiude le frontiere e addirittura i suoi militari all’estero non possono rientrare; quando l’Austria, la Svizzera e la Slovenia chiudono alcuni varchi che portano in Italia, quando da oggi la Polonia respinge al confine gli stranieri, anche nell’Europa delle strade aperte sta succedendo qualcosa che lascerà ferite profonde. La saggia e organizzata Singapore ha chiuso giorni fa, e così tanti altri. L’Occidente stava allentando la sua unità, prima del Covid-19, tra Donald Trump irritato con la Ue e la Ue irritata con Trump: ora, negli Stati Uniti non si entra se non si è americani, l’Oceano Atlantico che ha disegnato l’ordine del mondo per settant’anni si è diviso in due.  
E non sono solo le frontiere i muri alzati davanti alla globalizzazione. Ogni governo, anche nell’Europa della solidarietà, deve pensare innanzitutto ai propri cittadini, ai respiratori, alle infermiere per i suoi ospedali. Non è un mondo di politici egoisti e nazionalisti. Angela Merkel ha rovesciato la decisione tedesca di non esportare mascherine e ne manderà un milione in Italia. Emmanuel Macron non ha chiuso il varco di Ventimiglia. La resistenza contro le forze della chiusura c’è. Sembra però debole di fronte al vento del virus che sempre più spesso spazza via la forza della politica saggia e con lo sguardo lontano. 
Sopra a tutto, c’è lo scontro tra gli Stati Uniti e la Cina che, anch’esso, ha caratteristiche mai viste prima. In piena crisi globale, per la prima volta, la Casa Bianca ha deciso di non avere un ruolo di leadership contro qualcosa di catastrofico. E Xi Jinping sta ora lanciando un’offensiva di propaganda per dire, dopo i gravissimi ritardi con i quali Pechino ha riconosciuto l’esistenza del coronavirus, che il modello cinese è il migliore per la salute del mondo. Conflitto. 
Le crisi possono insegnare molto. Ma possono incattivire molto.