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 2020  marzo 14 Sabato calendario

Biografia di Teresa Cremisi raccontata da lei stessa

Il potere — o almeno quella scala gerarchica di chi comanda e chi esegue — l’ha resa più sicura. Questo mi dice, durante una lunga conversazione, Teresa Cremisi. Venezia stenta a riconoscersi e lei è lì, come in una pausa invernale con alle spalle Parigi, dove abitualmente vive. Lì, in una parte di laguna appartata dove è rimasto un antico marito. Pezzi di una biografia che tiene appartata, come se una linea invisibile tracciasse ciò che si può dire da ciò che non serve dire. Questa donna che non porta anelli né collane e che è segnata da un leggero filo di rughe su un volto ancora bello, si mostra a un tempo interessata e reticente. Seduti in un salottino della stazione sembra che mi studi, come per mitigare tutto quello che mi piacerebbe conoscere di lei. In fondo, dopo aver letto La Triomphante, un libro Adelphi di alcuni anni fa, mi parve evidente in lei il bisogno di raccontarsi: l’infanzia egizia (a quanto pare bella); e poi l’Italia (Roma e Milano); infine Parigi: una biografia trasognata, in parte vera e in parte sorretta da una scrittura che sa rendere vero anche ciò che non lo è.
Si riconosce più in una città o in un libro?
«Mi riconosco in entrambi, basta che mi piacciano. Una città per essere capita e accettata richiede più tempo di un libro. Ma ho avuto libri particolarmente cari, che mi sono stati vicini nei momenti complicati della mia vita».
Quali in particolare?
«Conrad è uno scrittore che mi ha accompagnato spesso, ma non sempre i suoi romanzi hanno trovato in me un vero ascolto. La sua linea avventurosa resta un sogno non risolto. Forse sono nata troppo tardi per apprezzarlo davvero. Mi piace Proust. Ma sopra a tutti mi seduce la voce amica di Stendhal. Ogni volta che lo rileggo mi sembra che dalle sue pagine esca qualcuno pronto a indicarmi una strada».
È così potente la letteratura?
«Non la letteratura che così avrebbe solo un tono pedagogico. Ma la fedeltà a certe pagine. Ripenso ad alcune parti della Certosa di Parma che rileggo come un trattato di sopravvivenza. E mi torna alla mente la figura del conte Mosca che conosce bene il potere e sa che con esso non ci si scontra direttamente. Pena evidentemente affondare insieme alle proprie ambizioni».
È curioso.
«Cosa?».
Questa fascinazione. Poteva lasciarsi attrarre dagli ideali di Fabrizio o dalle passioni della contessa di Pietranera.
«Sono convinta che il conte Mosca non sia stato abbastanza celebrato. È un uomo che maneggia il denaro, se ne serve, ma ha dimenticato di arricchirsi. È duttile ma anche solido. Conosce le regole che governano la vita e sa che cosa sia il potere e come comportarsi. Se non puoi vincerlo renditi indipendente o dissimula ciò che provi sul piano dell’esecrazione. Ecco. Per anni mi sono adeguata a questa immagine un po’ secentesca».
Sembra un implicito elogio al conformismo.
«Se non puoi cambiare le regole allora cerca di conformarti a esse con intelligenza. Che devo dire? Il conte Mosca fu una vera e propria scuola di sopravvivenza. Di prudenza esercitata nella dissimulazione onesta. Poi nel mio lavoro di editore ho guadagnato ruoli di potere ed è stato liberatorio. Mi sono sentita più sicura. Anche perché il potere è utile per fare cose eccellenti. Non lo demonizzerei».
Come editor lei nasce alla Garzanti.
«Sono restata in Garzanti per 26 anni. Ho cominciato come lessicografa per poi ricoprire ruoli più importanti. Erano gli anni in cui la casa editrice annoverava Pasolini e Gadda. Fu Attilio Bertolucci ad attrarli. Gadda mi fece una dedica molto cerimoniosa a una copia del Pasticciaccio: “Alla signorina Cremisi con ammirato pensiero”».
Quasi un’eccezione alla sua conclamata misoginia.
«Non ho mai avvertito questo aspetto del carattere, forse perché sono sempre stata poco femminile».
Com’erano i rapporti con Livio Garzanti?
«Oscillava tra tirchierie spaventose e generosità straordinarie. Era affetto da una forma di tirannia patriarcale, in cui i divieti prevalevano su ciò che era permesso fare. Il suo pessimismo lo spingeva a vedere ogni cosa al negativo. Quando lasciai la Garzanti mi scrisse una lettera dove in sintesi diceva: hai abbandonato un nido sicuro e andrai a fracassarti».
Stava andando verso dove?
«Ricevetti un’importante offerta da Gallimard nel 1989. Era rischioso per una donna, con due figli e una buona posizione professionale, lasciare l’Italia. Ma avevo la consapevolezza di stare entrando in una delle case editrici più prestigiose al mondo, con un catalogo straordinario e con la garanzia di poter lavorare senza troppi intralci».
Chi l’ha chiamata?
«Antoine Gallimard, direttore generale del gruppo. Ci conoscevamo da una quindicina d’anni. Sinceramente non mi aspettavo la proposta. Gli chiesi perché proprio io. Rispose che aveva fiducia in me, nelle mie capacità e poi aggiunse: se dovessi sbagliarmi non sarà grave, gli errori fanno parte della vita».
Che ambiente trovò?
«Era un gruppo editoriale diviso per feudi. Occorreva muoversi, soprattutto all’inizio, con cautela. Ero stata chiamata per ricoprire un ruolo importante. Sarei stata all’altezza di quegli scrittori che ammiravo per averli soltanto letti? Milan Kundera, Patrick Modiano, Octavio Paz, Pascal Quignard, Emil Cioran — cito solo alcuni protagonisti di questa piccola nazione letteraria autorevole e potente — mi hanno aiutata nel mio lavoro di editor».
A proposito di Cioran la sua compagna Simone Boué disse che ogni volta che lo scrittore faceva il suo ingresso in casa editrice si sentiva come una puttana che nessuno più desiderava. A lei faceva questo effetto?
«Non penso che si vivesse in questa maniera così degradata o provocatoria. Oltretutto eravamo abbastanza amici, vivevamo nello stesso quartiere e a volte lo accompagnavo a fare la spesa. Era decisamente amabile».
E depresso?
«So che ne soffriva ciclicamente. Ma poi mi dico: uno che vuole suicidarsi va al mercato per scegliere i migliori pomodori? O le arance più buone? Era una figura sfaccettata. Un giorno, accompagnandolo in Rue de l’Odéon dove abitava, davanti al portone di casa con il sacchetto della spesa in mano, disse: Thérèse, sa che Parigi è la migliore città per fallire?».
Fondava l’intera sua produzione letteraria sulla disfatta.
«Sospetto che l’inferno esistenziale lo rendesse euforico. I suoi libri hanno distrutto molte nostre convinzioni. E alla fine perfino lui, quando imboccò il tunnel dell’Alzheimer. Una delle ultime volte in cui andai a trovarlo in clinica, con la traduttrice tedesca, portai dei cioccolatini e delle violette. Ci riconobbe. Ma non parlava. Poi cominciò a mangiare qualche cioccolatino e in seguito con un sorriso ineffabile passò ai petali delle violette. Credo che quel gesto, particolarmente comico, fosse fatto per farci piacere. Fu uomo delizioso e paradossale. La conferma che tra la letteratura e la vita non c’è una vera relazione. Proust lo ha detto: io non sono io».
Il suo romanzo “La Triomphante” smentisce questa affermazione.
«La vita può fornire un materiale degradato o fantastico. Dopo di che lo scrittore, se è tale, resta decisamente solo con i suoi fantasmi».
I suoi quali sono stati?
«Forse una volta uscita da un’infanzia bellissima, dovermi misurare con tutto quello che di grande e pericoloso si stava profilando all’orizzonte. Quella dissimulazione alla quale accennavo ha qui la sua origine. Ci sono momenti della vita in cui occorre nascondere il proprio talento».
Una parola come “triomphante” sembra quasi non rispecchiarla.
«È stato un modo per depistare i cani da caccia. Quel nome eroico e squillante in realtà è una corvetta dell’Ottocento di cui trovai in un negozio di antiquariato il disegno, o meglio una serie di disegni abilmente confezionati da un artista, forse un marinaio, che si imbarcò sulla nave per le isole Marchesi».
E dunque?
«Come quel marinaio anch’io avrei voluto salire a bordo in cerca di qualche trionfo».
L’ha ottenuto?
«Non mi pare. Ho avuto a volte fortuna, ma trionfi veri e propri non direi. Forse, come dicevo a proposito di Conrad, sono sogni giunti troppo tardi».
Sogna mai Alessandria d’Egitto dove è nata?
«È stato il mio nido. Allora contava poco più di due milioni di abitanti, oggi ne accoglie quasi sei. La proporzione ucciderebbe ogni ricordo».
Ha nostalgia di quel luogo?
«No, la nostalgia non è un sentimento che provo. Io so che Alessandria cessò di vivere il 26 luglio 1956. Quella data corrisponde al discorso di Nasser con cui annunciava la nazionalizzazione del canale di Suez. Il suo programma lo avvicinò all’Unione Sovietica distanziandolo dall’Occidente. Fu un bene o un male? Non entro in questioni di geopolitica. Ma quel giorno finì la piccola e straordinaria società cosmopolita alessandrina».
Lei dov’era?
«Tre giorni prima ci imbarcammo per l’Italia, con mia madre. Papà restò ad Alessandria a occuparsi insieme ai suoi cugini dell’azienda di import-export. Solo in seguito ci avrebbe raggiunti prima a Roma e poi ci trasferimmo a Milano definitivamente».
Che cosa ha voluto dire sradicarsi da un mondo e finire in uno del tutto nuovo?
«Mi sosteneva la buona educazione ricevuta, le letture intraprese e il desiderio di non capitolare davanti alle avversità. Ero giovane e il futuro dunque una strada percorribile. I miei vissero invece il dramma di un trapianto fatto in un’età in cui il corpo non è più in grado di assorbirlo. Erano disorientati, immalinconiti. Come se avessero smarrito la loro antica intraprendenza. Erano tornati a dormire nello stesso letto e nel vederli, certe sere, su quel talamo mentre guardavano qualche programma televisivo, mi si stringeva il cuore. Ripenso a mia madre che cerca di distruggere i ricordi di una vita: le foto di famiglia, gli oggetti più cari. Mi chiedo: era ancora lei?».
Forse né lei né suo padre riuscivano a dissimulare.
«Non potevano più servirsi di quell’arte mimetica. Forse non se ne erano mai serviti».
Lei dissimula ancora?
«Non ne ho più bisogno. Aver interpretato certi ruoli professionali mi ha reso più sicura».
Dopo Gallimard è passata a dirigere Flammarion. Non riesce a stare ferma?
«Professionalmente sono abbastanza inquieta ed eclettica. Comunque da Gallimard sono rimasta 16 anni. È curioso, ma Antoine Gallimard, persona deliziosa, alla fine si è comportato come Livio Garzanti. Vedrai che te ne pentirai».
Se ne è pentita?
«No, è stato un decennio di lavoro eccitante».
Forse tra gli autori più eccitanti c’è Michel Houellebecq.
«Straordinario romanziere. Come un Balzac del nuovo millennio. Racconta storie che sembrano inverosimili, ma anticipano solo di qualche anno ciò che accadrà. È singolare quest’uomo, dotato dell’occhio di un insetto, capace di scrutare la realtà a 360 gradi. Ho grande ammirazione e affetto per lui».
Noi non abbiamo uno Houllebecq.
«In Italia ci sono scrittori interessanti. Anche se forse occorrerebbe alzare lo sguardo sulla natura di questo Paese».
Che cosa intende?
«Alberto Arbasino, quando ancora lavoravo alla Garzanti, mi inviò un manoscritto che lessi. Si intitolava Un Paese senza. Era un titolo strano. Gli chiesi: senza cosa o senza chi? E lui mi disse, guarda che l’elenco è lungo e lo trovi nel libro. Senza memoria, senza storia, senza passato, senza grandezza, senza dignità, senza programmi, senza progetti, senza testa e senza gambe. E via di seguito. Alla fine scrisse: senza avvenire? Con un bel punto interrogativo. Gli chiesi se non aveva esagerato nell’elencare i mali italici. Rispose che era il solo modo che conosceva per dimostrare il suo patriottismo e che bisognava guardare le cose come stavano davvero per tentare di porvi rimedio. Rispondere a quell’interrogativo dipendeva solo da noi. Dalla risolutezza con cui avremmo affrontato la tempesta e il possibile naufragio. Mi pare un insegnamento ancora prezioso».