Robinson, 14 marzo 2020
Biografia di Vitaliano Brancati
«L’ironia, che in tutta la Sicilia è greve, a Catania è leggera; c’è il senso del comico; c’è il vivere e il vedersi vivere e il non prendersi sul serio. C’è del Brancati in natura, e benissimo si accorda al barocco», scriveva Leonardo Sciascia nel 1975, passando in rassegna le città della Sicilia orientale.
Vitaliano Brancati, nato a Pachino in provincia di Siracusa, bambino a Modica in provincia di Ragusa, studente a Catania e adulto a Caltanissetta, dove insegnò all’istituto magistrale frequentato da Sciascia (che sempre lo considerò il suo maestro), era un’anima svagata e profonda, di quieta genialità. Magro, alto, dalle labbra strette e l’accento scivolato, le larghe vocali e una “erre” arrotolata, viene ricordato per una gentilezza esasperata, un aplomb al quale, con quella nota di sorpresa che si riserva agli stereotipi traditi dalla realtà, bisogna sempre aggiungere “inglese”. In realtà, poche cose sono più siciliane di quel garbo distaccato, di quell’alienazione non seriosa: Vitaliano Brancati è il genius loci dell’isola.
Ragazzo, si diceva, a Catania, dove si trasferì nel 1920 per frequentare le superiori, mentre dall’altra parte d’Italia il binomio fascismo- erotismo, ovvero le due ossessioni del maschio italiano, veniva celebrato da Gabriele D’Annunzio. Non esistono scrittori più diversi: lo stesso binomio, in Brancati che fu fascista e dal 1934 non più, viene declinato secondo un registro ironico, comico, grottesco; non è un binomio festeggiato, ma neppure ucciso per mezzo di un manifesto rivoluzionario: è corroso dall’interno, umiliato sotto la risata agra della letteratura. Come Ercole Patti, al quale il suo nome è associato, Vitaliano Brancati sentiva la sensualità ovunque, dietro le persiane socchiuse, nelle case ricoperte di cenere del vulcano: dove Giovanni Verga vedeva solo «ingravidabalconi», Patti e Brancati tiravano fuori complesse solitudini, famiglie slabbrate dalla piccineria borghese, patimenti e tradimenti. Non hanno raccontato l’eros, ma la vita con l’eros dentro, comprendendola in ogni aspetto politico e sociale.
Dopo aver scritto quattro libri tutti azione e regime, Brancati, trasferitosi a Roma ed entrato in contatto con intellettuali come Alberto Moravia e Corrado Alvaro, cominciò a distaccarsi da quella che definirà «ubriachezza di stupidità», finché nel 1933 pubblicò il non propagandistico Singolare avventura di viaggio. Siccome la letteratura, se ti salva la vita, lo fa per vie contorte, il romanzo fu prima stroncato e poi ritirato dal mercato per immoralità (tirato in 2245 copie, fece in tempo a venderne 339: il regime ha sempre paura dei topolini).
Dopo la censura, Brancati tornò a Catania, dedicandosi all’insegnamento e collaborando con Omnibus, la rivista di Leo Longanesi, finché nel 1939 non venne soppressa pure quella. Nel 1941 tornò a Roma e inaugurò, con il romanzo Gli anni perduti, i suoi titoli più sfavillanti: Dongiovanni in Sicilia, Il bell’Antonio, Paolo il caldo (pubblicato postumo). Nel 1942 iniziò a lavorare come sceneggiatore, soltanto per soldi, detestando profondamente l’idea che l’ispirazione fosse qualcosa di comunitario: «io scrivo, per esempio, una pagina ogni mattina per sentire se il mio cervello, dopo l’odioso lavoro di sceneggiatura del pomeriggio e della sera, durante il quale si è mescolato ad altri cervelli in un mucchio di materia grigia tanto grosso e gonfio quanto inerte e stupido, viva ancora di vita propria».
A torto identificato come il cantore del macchiettismo, Brancati è lo scrittore che, in anticipo e controcorrente, sulla pagina ha messo il machismo in condizioni di non nuocere: «questo avere i sogni, e la mente, e i discorsi, e il sangue stesso perpetuamente abitati dalla donna, porta che nessuno sa poi reggere alla presenza di lei». Se con Il bell’Antonio manda in scena l’impotenza, il difetto nel senso del deficere, del venir meno, e con Paolo il caldo la lussuria ossessiva e morbosa, La governante, una piéce del 1952, ha come protagonista una ragazza francese lesbica al servizio di una famiglia siciliana e borghese trapiantata a Roma. In Italia si rappresentò solo nel 1965, con l’abolizione della censura; sul palco una straordinaria Anna Proclemer, moglie e compagna di vita di Brancati. Nel testo, il senso della colpa è schiacciante fino alla tragedia, ma il motore della vicenda non è né l’amore né il sesso, bensì la calunnia; anche in questo, Brancati è immenso: non tematizza, racconta. Se decidi di raccontare la realtà, la vedi così: piena di débâcle e di verità segrete, una catena di fatti che ti porta altrove rispetto al chiacchiericcio, al giudizio. La censura tuona, ma è un tuono preistorico, il mondo è già da un’altra parte, la letteratura ne è lo specchio.
Su Vitaliano Brancati di censure ne arrivarono sempre, fu un pessimo fascista per i fascisti, un non abbastanza comunista per i comunisti e uno scrittore scandaloso per tutti. Nel 1948, insieme a Luigi Zampa, girò Anni difficili, la storia di un impiegato siciliano costretto a iscriversi al partito fascista per conservare il lavoro e poi epurato da un sindaco ex fascista riciclatosi come antifascista. Gli italiani, che sopportano tutto tranne essere rappresentati, insorsero dandogli del qualunquista e Italo Calvino dovette intervenire in difesa del senso dell’opera. Nel 1953, nel suo diario, Brancati scrisse: «il nostro tempo non è in grado di affrontare l’arte. È pieno di moralisti che si fanno venire il mal di testa col problema morale e sociale dell’arte, ma che in realtà odiano l’arte nella sua vera essenza».
Morì nel 1954, per l’errore di un medico durante un’operazione non rischiosa. Un anno prima lui e Anna Proclemer si erano separati, senza che ciò impedisse loro di pensarsi l’uno come il grande amore della vita dell’altra: «perché il rapporto si esaurì? Ah, non lo so. Non cambiò nulla: né in lui né in me», disse Proclemer molti anni dopo, aggiungendo che fu lui a soffrirne di più, a tollerare peggio il cambiamento, e che da allora le era mancato ogni giorno. Quanto al Brancati, uomo e scrittore, è tutto lì, in una delle sue ultime annotazioni: «seduto a un caffè, mi penetra la profonda dolcezza della comprensione delle cose. Fuori della Sicilia, non la sento mai così intensa».