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 2020  marzo 14 Sabato calendario

Il mistero di Levet, poeta minuscolo

«Amava i travestimenti, il distacco, la flemma e la tenerezza». Questo il ritratto, suggestivo e conciso come certi epitaffi, che di Henry Jean-Marie Levet fece un giorno, commemorandolo, un amico poeta. Anni prima, un po’ meno laconico ma anche meno affettuoso, un piccolo giornale di provincia, Le Memorial de la Loire, nell’indifferenza di tutto il resto della stampa, ne aveva annunciato la scomparsa in questo modo: «Diamo notizia della morte di Henri Levet figlio del deputato della prima circoscrizione di Montbrison. Levet aveva abbracciato la carriera amministrativa dopo aver tentato la carriera letteraria ed aver pubblicato versi che avevano una certa originalità ma ai quali faceva difetto la semplicità». La carriera amministrativa a cui alludeva il trafiletto la si può ricavare dalle pagine dell’ Annuaire Diplomatique : «Vice Console di Terza Classe, con funzioni di Segretario Archivista a Manila, Incaricato di Cancelleria a Las Palmas». «Poeta microscopico» lo definì Eugenio Montale in un articolo uscito quasi settant’anni fa, l’unico forse che si sia occupato in Italia di lui, ma anche: «poeta tempestivo e chiaroveggente», suggerendo che si dovesse proprio a quel «funzionario in trasferta» la prima rivelazione di una certa lirica esotica, coloniale, cosmopolita, quella per intenderci che avrebbe poi ispirato poeti come Blaise Cendrars, Paul Morand e Andrè Salmon (ai quali si potrebbe aggiungere il meno noto Louis Brauquier, il poeta marsigliese, modesto impiegato delle Messageries Maritimes, molto amato da Jean-Claude Izzo). Montale dopo aver parlato dei versi di Levet come di: «un modello di poesia in miniatura», lo paragonava a quei pittori che conoscono l’arte di far «entrare il Vesuvio con bel pennacchio di fumo in una conchiglia».
Alla stessa immagine Montale aveva già fatto ricorso nelle quartine di un Mottetto : «Nella valva che il vespero riflette un vulcano dipinto fuma lieto», che aveva per tema, come ha scritto Dante Isella, la resa che «l’ansia di larghi orizzonti» è costretta molto spesso a pronunciare nei confronti «del breve spazio della quotidianità». Nato a Montbrison, comune nel dipartimento della Loira, nel 1874 – morirà a Mentone di tubercolosi trentadue anni dopo – Levet era stato attratto fin dall’adolescenza dai viaggi, dai transatlantici e dalle carte geografiche, ma aveva finito poi per trascorrere gran parte della propria breve esistenza tra i bistrot di Montmartre e i locali del Quartiere Latino, nei quali si presentava un giorno abbigliato come un dandy, il giorno dopo indossando giacchette dai bottoni grandi come sottocoppe e scarpe color verde impero, una volta sfoggiando, sopra una corona di capelli tinti di biondo, un fez levantino e la volta successiva in perfetta tenuta da tennista. Lettore appassionato di Baudelaire, di Laforgue e di Rimbaud, dei quali era in grado di recitare a memoria pressoché tutta l’opera, Levet fu autore di una ventina di poesie, di un misterioso romanzo, L’Express de Bénarès, di cui abbozzò solo due capitoli tuttora introvabili, di una manciata di articoli comparsi su alcune riviste letterarie e di un saggio dedicato all’origine indù dell’arte Khmer che oltre a procurargli una sovvenzione governativa per un sopralluogo in Indocina che poi non effettuerà, servirà ad aprirgli le porte della carriera diplomatica. All’interesse di Montale per la figura e per l’opera di Levet non era probabilmente estraneo il rapporto di devota ammirazione che legava il poeta de Le Occasioni a Valery Larbaud. A colui cioè che di Levet è stato il sostenitore e il divulgatore più convinto sin da quando, dopo aver letto tre sue poesie in una rivista, credette di aver finalmente trovato, scrisse, «ciò che cercavo da tempo sugli scaffali e i ripiani delle biblioteche». Più che nel «successore di Laforgue, Rimbaud e Walt Whitman», com’era nelle sue convinzioni, Larbaud si era in realtà imbattuto nel poeta che avrebbe poi proiettato la propria minuscola ombra su A.O. Barnabooth, l’autore fittizio a cui egli avrebbe attribuito la paternità di un’opera in cui la smania di viaggiare si mischiava ad un’estenuata passione per la letteratura.
Larbaud e Levet non si incontrarono mai. Un giorno Larbaud, in compagnia di Léon Paul Fargue, si recò a Montbrison nella grande casa di famiglia, bianca e silenziosa, circondata da alberi e da cespugli di petunie in cui vivevano i genitori di Levet. Mentre il padre, seduto nella sua poltrona con un soprabito sulle spalle pronunciò solo qualche monosillabo, la madre raccontò loro quello che erano stati gli ultimi giorni di vita di Henry, compreso il particolare che, poche ore prima di morire, l’avesse pregata di imboccarlo. Poi li guidò nella stanza del figlio. Sui ripiani della libreria, ricoperti di polvere, alcuni vecchi volumi e parecchia chincaglieria esotica. Alle pareti il ritratto di un rajah, la piccola bandiera sdrucita di una repubblica delle Antille, due foto di Henry in uniforme da diplomatico, con la feluca stretta in una mano, e una foto del busto di Rimbaud, quello eretto nel luglio del 1901 nella place de la Gare di Charleville su iniziativa di un comitato di cui era stato segretario (una delle rare lettere di Levet che si conservano è una missiva inviata a Pierre Loüys nella quale sollecita lo cher confrère ad aderire alla raccolta di denaro).
Prima di lasciare Montbrison i due letterati, visitando il piccolo cimitero della cittadina, notarono come la tomba di Henry somigliasse «in dimensioni ridotte, simili a quelle di un ex-voto» alla villa di famiglia. La sera stessa, in preparazione di una biografia di Levet che non porterà mai a termine, Larbaud scrisse sul suo taccuino come fosse strano pensare per anni ad una persona e arrivare poi ad incontrarla quando era ormai troppo tardi, trovandosi a quel punto di fronte: «ad una pietra liscia sormontata da una testa pallida e priva di lineamenti».