Robinson, 14 marzo 2020
Dov’è Troia?
Dov’è la Troia di Omero? «Nello stesso paese in cui sono la Gerusalemme Celeste, l’Inferno di Dante, il castello di re Lear e l’Islanda di Brunilde». Così, in una lettera del settembre 1873, scriveva un ventiquattrenne di genio, destinato a diventare il principe dei filologi classici, Wilamowitz. Negli stessi anni dell’aspra polemica con Nietzsche, egli liquidava a questo modo le scoperte di un rude «campagnolo del Meclemburgo», che da qualche mese pretendeva di aver ritrovato la Troia omerica, scavando con poco metodo – e con danni permanenti – l’oscura collina turca di Hissarlik. Quel campagnolo era naturalmente Heinrich Schliemann, all’epoca poco più che cinquantenne, e impegnato da circa un lustro a realizzare il sogno che, a suo dire, aveva concepito ancora bambino, nel povero paese natale. Un sogno ispirato, nella prima infanzia, da un’illustrazione di Troia in fiamme, e poi risvegliato in adolescenza dai versi omerici che un ubriaco declamò nella bottega dove Schliemann era un umile apprendista. E il suo sogno era semplice e grandioso: ritrovare le rovine di Troia; ritrovarle in virtù di una fantasia visionaria, di una tenacia granitica, ma anche di un corposo capitale accumulato in vent’anni di spregiudicati affari. E in barba a Wilamowiz e agli scherni che molta accademia rovesciò su di lui, di lì a breve Schliemann sarebbe diventato la stella più luminosa nello star system della cultura classica, che era allora la cultura tout court. Celebrato dalla stampa e vezzeggiato dai politici – uno dei suoi alfieri fu il premier britannico William Gladstone – Schliemann non si sarebbe limitato a ritrovare il regno di Priamo: fra il 1874 e il 1876 avrebbe scavato a Micene per portare alla luce nientemeno che le tombe di Agamennone e signora; avrebbe scavato a Orcomeno e ritrovato il tesoro di Minia; e poi, negli anni Ottanta, ancora Troia, e poi Tirinto, e poi Creta. E a ogni nuova impresa nuovi tesori, profluvi di magnifici reperti: regge, strade, tombe regali, ma anche armi, broccame, sontuosi gioielli. Il supposto volto d’Agamennone, con i suoi bei baffi da Junker prussiano più che da re miceneo, è immortalato dalla maschera d’oro trovata a Micene nel 1876, una delle più strabilianti scoperte di Schliemann. Il ritratto della sua giovane moglie greca, Sofia, acconciata con la presunta parure di Elena – parte del cosiddetto “tesoro di Priamo” – dice bene la baldanza sfacciata con cui Schliemann seppe celebrare i propri trionfi. Se la morte non l’avesse colto d’improvviso, a Napoli, nell’inverno del 1890, la sua tappa successiva sarebbe stata Atene, e certo Schliemann non avrebbe mancato di trovarvi i coturni di Sofocle, o la pipa di Pericle. Il suo lavoro fu proseguito dal suo meno celebre ma più serio allievo, Wilhelm Dörpfeld, che qualcuno ha maliziosamente chiamato «la più importante scoperta di Schliemann». Ma Dörpfeld è noto solo agli specialisti; ad Atene, invece, Schliemann e Sofia riposano in un mausoleo imponente. E la oscura Hissarlik dove egli scavò, e dove sua moglie posò come nuova Elena, è oggi patrimonio Unesco. Ce ne vuole di lena, e di fortuna, per compiere una simile parabola: nascere in un paesello della Germania più remota, lassù, al confine col Baltico, dove – secondo una feroce battuta di Bismark – anche la fine del mondo sarebbe giunta con mesi di ritardo; e poi sudarsi un’istruzione fra parrocchie protestanti e botteghe di droghieri; imparare da autodidatta un gran numero di lingue; gettarsi in ogni sorta d’affare, pulito o no, dagli Stati Uniti alla Russia; e intanto salire la scala sociale a forza di ben orchestrate relazioni e ben studiati matrimoni: la prima moglie, russa, gli servì per posizionarsi a San Pietroburgo e avviare un lucroso traffico d’armi durante la guerra di Crimea; ma fu piantata per la giovane Sofia ( scelta, vuole la leggenda, sulla base di una foto), quando per Schliemann era vitale accreditarsi in Grecia per divenire, da mercante esperto, archeologo dilettante. I segreti del suo successo li ha rivelati Schliemann in persona, che – prima di finire oggetto di torrenziali biografie – seppe farsi aedo di se stesso, amplificando senza riguardo la propria storia. Alcune delle sue rodomontate autobiografiche sono memorabili. Volete imparare di corsa venti o trenta lingue? Facile: mandate a memoria un romanzo scritto o tradotto nella vostra lingua, poi rileggetelo ossessivamente in tutte le traduzioni disponibili, e vi troverete poliglotti. Volete ottenere un dottorato in filologia classica? Scrivete la vostra dissertazione in greco antico: farete colpo e avrete il titolo. Volete scoprire la città dove sbarcò Agamennone? Non fidatevi dell’archeologia ufficiale, non cercate dove tutti cercano: fidatevi solo di Omero, e troverete la collina giusta. Ma raramente ai santi della cultura toccano, come ai santi della fede, canonizzazioni imperiture: e così, a partire dagli anni ’ 70 del Novecento, l’agiografia di Schliemann ha subito dure smentite. Oggi molte delle sue millanterie sono state sbertucciate e degradate da testimonianze storiche a inquietanti documenti psicologici. Oggi sappiamo, ad esempio, che la sua tesi di dottorato fu apprezzata, sì, ma non era scritta in greco antico, bensì in un passabile francese: e le sei paginette in greco che l’accompagnavano risultarono del tutto sgrammaticate. Sappiamo che a orientarlo verso Hissarlik non fu Omero, ma il diplomatico inglese e archeologo Frank Calvert, i cui meriti Schliemann volle passare sotto silenzio. Del resto, egli si inventò d’essere stato ricevuto alla Casa Bianca da ben due Presidenti degli Stati Uniti, Fillmore e Johnson: sognava in grande, Schliemann, e mentiva in grande. Queste e altre spacconate gettano ovviamente una luce sinistra su aspetti che vanno ben oltre la spicciola biografia: i reperti di Schliemann furono tutti ritrovati come e dove l’astuto uomo ha testimoniato? Quanti contesti archeologici sono stati manomessi o inventati? Quanti tesori fastosi sono un’accozzaglia di pezzi scavati in luoghi e tempi diversi? Per non dire dei ricorsivi dubbi sull’autenticità di uno fra i reperti più celebri, la maschera di Agamennone, che pure Schliemann non chiamò mai così: è forse un falso? O è un pezzo autentico ma ritoccato? Gli esperti tuttora discutono, e il governo di Atene – a scanso di rischi – non concede analisi. Schliemann, per parte sua, osservava che i mustacchi da hipster del suo re dimostravano certamente l’esistenza, in età micenea, di speciali pomate per barbe e baffi. Candore di campagnolo o provocazione di falsario? Sia come sia, il caustico Wilamowitz sembra avere la sua rivincita postuma. Ma se la grandezza di Schliemann è in crisi, la grandezza delle sue scoperte è un fatto: e pazienza se la fama dell’opera supera la fama dell’uomo. Un’opera, quella di Schliemann, soggetta a drastiche revisioni sotto il profilo archeologico e storico, ma immutata nel suo valore, quale impresa audacemente pioneristica e – forse soprattutto – quale impresa eminentemente simbolica. Sì, perché c’è la dura geopolitica, c’è la storia reale dell’Europa contemporanea, nella storia semiromanzata di Schliemann. Questo scopritore d’antichi imperi lavorò fra imperi moderni che si scontravano e si avviavano a sgretolarsi. Come tanti archeologi del tardo Ottocento e del primo Novecento, egli si mosse su confini certi e incerti, visibili e invisibili, e sul suolo della sua Hissarlik – come nella Troia di Omero, e nella Turchia di oggi – si decideva il confine stesso fra Occidente e Oriente. Non meno emblematiche le peripezie postume dei suoi reperti più noti, a partire dal “tesoro di Priamo”: sottratto all’Oriente turco, trafugato in Grecia e poi conservato in Germania, difeso strenuamente in un bunker nazista, guadagnato all’Urss dall’Armata Rossa, e oggi esibito a Mosca. Esibito in Oriente, dunque, o in Occidente? In terra achea o in terra troiana? «Le cose greche camminano», diceva Savinio. Camminano anche le cose troiane; e le cose turche; e le cose umane in genere. Camminano gli uomini.