il venerdì, 13 marzo 2020
Intervista a Paolo Portoghesi
L’architettura postmoderna fa irruzione sulla scena internazionale alla fine degli anni Settanta, dopo un periodo di latenza piuttosto travagliato. Il suo grido assomiglia a quello di Peter Pan: «Sono la gioventù, sono la gioia, sono un uccellino appena uscito dall’uovo!». È comprensibile e divertente. Porta colori e ornamenti laddove l’austera modernità ammetteva solo geometrie elementari. Poi, nel giro di un ventennio, quello che sembrava un linguaggio genuino degenera in un’estetica edonistica e superficiale, e l’esperienza PoMo viene chiusa senza appello. Apparentemente. Perché oggi la vediamo riemergere nelle nuove generazioni di architetti.
Prova ne sia una pubblicazione che, secondo il suo curatore Owen Hopkins, giovane storico dell’architettura, «sarebbe stata inconcepibile solo pochi anni fa»: Postmodern Architecture. Less is a Bore (Phaidon) ripresenta l’esperienza postmodernista senza ambizioni di completezza storica, mettendo insieme edifici paradigmatici, come il Museo d’arte di Stoccarda di James Stirling o il cimitero di Modena di Aldo Rossi, con opere cronologicamente o concettualmente distanti dal PoMo, ma che riprendono quei linguaggi, spesso esasperandone l’elemento giocoso: palazzine che sembrano ziggurat, grattacieli come campanili neogotici, case a forma di cestino. L’intento del volume è celebrare la fine di un tabù. Il sottotitolo - Less is a Bore (il meno è una noia) - riprende la risposta di Robert Venturi, padre spirituale dell’architettura PoMo, al “Less is More” di Ludwig Mies van der Rohe, il motto del minimalismo, tendenza principale del Novecento. Da qui bisogna partire per capire il postmodernismo.
Alla fine della Grande Guerra, infatti, gli architetti scoprono che per tenere su un edificio non servono più quattro muri: bastano quattro pilastri. Le porte e le finestre non hanno più ragione d’essere, la struttura è svincolata dal perimetro. L’architetto deve limitarsi a cercare la bellezza nelle potenzialità dell’acciaio e del cemento. Vuoti e pieni. Bianco e nero. In sostanza, è la fine della casetta disegnata dal bambino. Il movimento postmoderno nasce per rivendicare la libertà di esistere per quella casetta, e per qualunque altra immagine evocativa. Il fatto che si possano fare strutture a telaio non significa che ogni struttura debba esserlo. Il fatto che la decorazione sia superflua non annulla il suo valore estetico e psicologico. La colonna, l’arco, la trabeazione, la cupola, sono forme che parlano all’inconscio collettivo, mentre un’architettura che è mera espressione dei sistemi costruttivi comunica solo con pochi.
I PoMo vogliono comunicare con tutti. I primi a dichiararlo sono gli americani (il saggio Imparare da Las Vegas di Robert Venturi è del 1972), ma è l’Italia a dare ufficialmente inizio alla discussione internazionale sul postmodernismo: nel 1980, in occasione della prima Biennale di architettura di Venezia, venti grandi architetti realizzano altrettante facciate di case, immaginate come quinte teatrali di una strada urbana. È la Strada Novissima di un’immaginaria, invocata città postmoderna. L’architetto che l’ha ideata è Paolo Portoghesi. A distanza di quarant’anni, il suo contributo, sia come teorico che come progettista, è di fondamentale importanza per riconsiderare quell’esperienza.
Portoghesi, oggi alcuni critici sostengono che il postmoderno non abbia mai davvero lasciato l’architettura. Lei che ne pensa?
«Penso che in realtà il postmoderno sia stato sconfitto, perché non è diventato patrimonio comune. A parte alcune opere eccezionali, come il Museo di Stoccarda di Stirling. O il Sony Building di Philip Johnson a New York. Cioè icone fruite da un pubblico molto vasto».
E l’odiato genitore, il razionalismo?
«È ancora determinante delle scelte architettoniche».
Perché, secondo lei?
«Perché è conformista, e il conformismo vince sempre. E perché si adatta bene al nostro sistema economico. Il razionalismo non richiede artigiani qualificati, né complessità esecutive».
In sostanza, ha vinto perché costa meno?
«Semplificando molto, sì».
Qual è stato, invece, il contributo del PoMo alla causa dell’architettura?
«Ha suscitato delle polemiche che hanno dato all’architettura una grande popolarità».
Potremo dire che è lì che nasce la figura dell’archistar?
«Sì. E in effetti molti degli architetti che parteciparono alla Strada Novissima sono diventati famosi».
Per esempio?
«Frank Gehry, Ricardo Bofil, Arata Isozaki. Robert Stern, che oggi costruisce milioni di metri cubi all’ora. E ovviamente Rem Koolhaas: un architetto di grande qualità, sebbene le sue architetture dimostrino una totale indifferenza ai luoghi. Sembrano meteoriti. Il che è in antitesi con il postmodernismo».
Cos’è, dunque, il postmodernismo?
«Anzitutto, direi che non è un movimento, perché non ha quelle caratteristiche di convergenza su temi di riconoscibilità proprie dei movimenti. È stato un tentativo di liberazione dall’ortodossia. Un po’ come la Riforma protestante per il Cristianesimo».
Cosa rivendicava?
«La riconsiderazione dell’architettura come processo estetico, non esclusivamente utilitario. La fine del proibizionismo. Il ritorno alle forme del passato, alla decorazione».
Ma c’è davvero bisogno della decorazione?
«La decorazione spiega il significato dell’architettura, comunica i suoi contenuti. Rinunciarvi ha avuto gravi conseguenze sulla sua comprensibilità».
Alcuni, però, hanno interpretato il PoMo come un invito a servirsi liberamente di qualunque forma del passato.
«È il motivo per cui è durato così poco. Negli architetti più qualificati, invece, il ricorso al passato non era un’operazione di gusto, ma il tentativo di scavare nella memoria collettiva».
Quindi l’architettura dovrebbe creare forme familiari?
«Sì. Puntare sugli aspetti più nascosti della bellezza è un errore. Bisognerebbe accettare quella nozione di bello che ha permesso all’umanità di costruire un patrimonio comune. Il nostro cervello è pieno di immagini che vengono da lontano: se si vuole comunicare con l’architettura, bisogna usare quelle immagini».
In questo c’è anche una tensione verso l’infanzia?
«Sì. E infatti il surrealismo anticipa molti aspetti del postmoderno. Il desiderio di tornare a una genuinità infantile. L’ironia».
Quali architetti le piacciono oggi?
«Mi piace un minimalista come Peter Zumthor, ma anche un estremista come Gehry, che ora immagina grattacieli che sembrano colpiti dalla lebbra, con la superficie tutta arricciata. Segue l’idea di una completa liberazione formale. Questo è interessante, ma il suo eccessivo estetismo lascia perplessi. Mi piacciono anche gli ultimi lavori di Zaha Hadid. Prima di morire sembrava convertita a un’architettura capace di esprimere sentimenti. Penso alla Bach Chamber Music Hall di Manchester, o al memoriale per le vittime del genocidio cambogiano».
Qual è il compito dell’architettura?
«Guarire la città, nel suo rapporto con l’ambiente e con i cittadini. Questo è forse l’unico discorso del postmodernismo che sarà ripreso dalle prossime generazioni. Se l’architettura non riesce a collegare psicologicamente la città con i suoi abitanti, vuol dire che ha fallito».