la Repubblica, 13 marzo 2020
Quando scoprimmo che l’Iliade era vera
Esiste una cosa chiamata verità poetica. A questa si riferisce Matelda quando, alla fine del Purgatorio, rivela a Dante che ciò che i poeti descrissero parlando di Età dell’Oro altro non è che il ricordo del Paradiso terrestre perduto. Heinrich Schliemann la trovò nell’ Iliade e credette che il poema di Omero, opportunamente decifrato, potesse guidare in maniera accurata al sito esatto dove era sorta Troia. Schliemann (che rivelò anche di essere incline a mentire e a esagerare) ci racconta che la sua passione per Omero ebbe inizio nella primissima infanzia, quando all’ora di andare a dormire il padre gli recitava le avventure degli eroi omerici. Il bambino rimase affascinato a tal punto da quelle storie che a dieci anni, un Natale, donò al padre un saggio raffazzonato in latino sugli eventi principali della guerra di Troia. A causa della situazione finanziaria della famiglia, il piccolo Schliemann non poté proseguire gli studi e, all’età di quattordici anni, fu mandato come apprendista presso un droghiere.
Tra i personaggi eccentrici del suo paese, c’era il mugnaio, un giovanotto che in passato aveva studiato i classici per poi diventare un patetico ubriacone. Di lui si diceva che fosse stato espulso da scuola per cattiva condotta e che il padre, un ecclesiastico protestante, lo avesse obbligato ad apprendere il lavoro di mugnaio per punirlo. Il giovane, disperato, si era dato al bere, ma non aveva dimenticato Omero. Una sera, il mugnaio ubriaco entrò barcollando nella bottega di Schliemann e, di fronte al ragazzino incantato, recitò un centinaio di versi in greco antico seguendo la cadenza ritmica del poema. Schliemann non comprese nemmeno una parola, ma la musicalità dei versi ebbe un effetto tale su di lui da farlo scoppiare in pianto e obbligarlo a chiedere al mugnaio di ripeterli, più e più volte, corrompendolo con bicchierini di brandy. «Da quel momento» confessò più avanti, «non smisi più di pregare Iddio di concedermi la grazia di provare la felicità di apprendere il greco».
Una malattia toracica impedì a Schliemann di continuare a lavorare dal droghiere e così, alla ricerca di una nuova occupazione, si recò ad Amburgo, dove trovò lavoro come ragazzo di cabina a bordo di un bastimento diretto in Venezuela. Una tempesta fece arenare il bastimento sulla costa olandese e, credendo che il destino avesse deciso che doveva vivere in Olanda, Schliemann si stabilì ad Amsterdam e trovò lavoro come impiegato d’archivio. Determinato a studiare le lingue vi si dedicò e, in rapida successione, imparò inglese, francese, olandese, spagnolo, italiano, portoghese e russo. Tuttavia, soltanto nel 1856, all’età di trentaquattro anni, si accinse a studiare il suo amato greco. Passato qualche tempo, alcune transazioni commerciali andate a buon fine gli misero a disposizione un’ingente fortuna. Finalmente benestante, a quel punto Schliemann fu pronto a coronare il suo sogno: visitare l’antica Grecia ed esplorare i luoghi descritti da Omero. In questo ebbe un successo strabiliante. Nel 1873, usando l’ Iliade a mo’ di guida, portò alla luce, sotto la cittadina di Hissarlik nella Turchia nordoccidentale, la leggendaria città di Troia. Non una, ma ben nove città di Troia stratificate. Dal XVII secolo in poi, i lettori avevano creduto che fosse possibile scoprire la “città di Priamo dalle sei fortificazioni”. John Sanderson, ambasciatore della regina Elisabetta I, scrisse di essere partito due volte alla ricerca di Troia, prima nel 1584 e poi di nuovo nel 1591, e di non aver avuto fortuna. Le ricerche continuarono a intermittenza per tutto il XVIII e il XIX secolo. Nel 1769 Robert Wood pubblicò Essay on the original genius of Homer, un saggio che, pur non proponendo una collocazione precisa per la città di Troia, descriveva i cambiamenti topografici che plausibilmente si erano verificati dai tempi di Omero (e che oggi sappiamo essere corretti). A distanza di quasi mezzo secolo, l’archeologo teorico Charles Maclaren ipotizzò giustamente che Troia dovesse trovarsi a Hissarlik, ma i primi scavi in quel sito furono iniziati da Frank Calvert, uno studioso inglese che aveva sempre vissuto in Turchia. Schliemann, le cui teorie lo avevano portato inizialmente a concentrarsi su un’altra località, alla fine concordò con la segnalazione di Calvert e si unì a lui negli scavi.
Ben presto, Calvert e Schliemann ebbero un’aspra divergenza. Calvert espresse ufficialmente la sua opinione: in quella località mancava un rapporto essenziale diretto tra due strati, per la precisione quello risalente all’occupazione della città nella preistoria e quello del periodo cosiddetto arcaico, risalente all’incirca al 700 prima di Cristo. In altri termini, secondo lui l’esistenza dell’insediamento nel 1200 prima di Cristo, più o meno l’epoca della Guerra di Troia, non era attendibile. Schliemann si arrabbiò moltissimo e accusò Calvert di essere un “demonio maligno”. Poche settimane dopo, gli eventi dettero ragione a Schliemann. Il 31 maggio 1873, negli strati che secondo lui risalivano alla Troia omerica, egli scoprì infatti un tesoro di calderoni di rame pieni di calici d’oro e d’argento, e un assortimento strabiliante di gioielli d’oro.
Gli archeologi di professione e i classicisti accademici andarono su tutte le furie per l’ardire di Schliemann e tentarono di liquidare le sue scoperte come inattendibili. In tutti gli attacchi entravano in gioco varie questioni: in primis, gli accademici consideravano spudorata l’intrusione di un dilettante nel loro campo di ricerca professionale; in secondo luogo, il concetto che il poema potesse non essere semplice frutto dell’immaginazione, bensì costituire un’accurata raffigurazione del mondo reale che decantava, era inquietante; terzo, la conclusione inevitabile era che l’Iliade e l’Odissea potevano risalire a tempi di gran lunga antecedenti all’età eroica greca, un’epoca molto anteriore a quanto previsto dal curriculum di studi universitario.
Schliemann non si dette per vinto. Descrisse l’insieme di rovine che aveva portato alla luce come «Troia, la città presa d’assedio da Agamennone», e gli oggetti preziosi che aveva disseppellito come «il tesoro di re Priamo» perché, scrisse, «così erano chiamati dalla tradizione a cui Omero fece da eco; ma non appena si dimostrasse che Omero e la tradizione sono imprecisi e che l’ultimo re di Troia si chiamava “Smith”, così lo chiamerei subito io stesso». A prescindere dalle critiche, agli occhi di tutti Schliemann divenne un eroe, l’uomo che aveva scoperto l’esistenza di un mondo che fino a quel momento si era ritenuto immaginario. La verità poetica aveva prevalso.
(Traduzione di Anna Bissanti)