Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2020  marzo 13 Venerdì calendario

La poesia al tempo del contagio

Quando sarà finito dovremo ringraziare molte persone. Medici, infermiere, chiunque si sia speso mettendo a repentaglio la propria vita, chiunque ci abbia salvati non sprecandola in giro, per strada. E i poeti. "Questo ti voglio dire/ci dovevamo fermare./Lo sapevamo. Lo sentivamo tutti/ch’era troppo furioso/il nostro fare. Stare dentro le cose./Tutti fuori di noi./Agitare ogni ora – farla fruttare." Inizia così "9 marzo 2020", la poesia che Mariangela Gualtieri ha pubblicato sui suoi social e poi su Doppio Zero, la rivista on line dove si può leggere intera. Forse la nostra specie con questo virus è riuscita a fare quello che inconsciamente tutti volevamo ma, da persone singole, non sapevo come ottenere: rallentare. La specie, pensa Gualtieri, e non il singolo, ha aperto la fessura da cui è entrato. E come specie, semmai, ci salveremo. Possiamo trovare dell’oro in questo tempo malato, scrive, doni, e la spinta per tornare a essere un organismo solo. Chissà. Ma intanto siamo come bambini che l’hanno fatta grossa, in castigo e senza poter essere abbracciati. Perché questa solitudine sia feconda come immagina Gualtieri, dobbiamo scegliere bene cosa fare. Possiamo annichilirci, provare a dimenticare, o invece studiare per tornare più forti quando si potrà tornare, leggere, amare, accudire. Qualunque cosa facciamo in questi giorni, è fuori da un’economia tradizionale. A questo vuoto odierno, a questa sospensione senza abbracci, a questo stare in attesa e patire, a questo dover inventare le ore, si addice la poesia. Che ha il suo destino e forse il senso più profondo nella gratuità. Le poesie non si comprano, si imparano a memoria. Si declamano, ci si passano l’un l’altro come il fazzoletto a chi sta sanguinando, il sorso d’acqua all’assetato. La poesia lenisce il dolore, accende il desiderio, è un dono per il quale non servono mani. I poeti entrano nelle nostre stanze, ci fanno ridere o piangere, ci consolano senza infettarci. Per questo sono comparsi, sornioni e generosi, in questi giorni di privazioni. Insieme a Gualtieri, Tiziano Scarpa. Che pubblica per noi, ieri, "Poesia contro la pandemia". Scrive, su ilprimoamore.com: "Il governo emana un decreto anche sulla poesia. Per non spargere saliva contagiosa, vietate le consonanti plosive come le pi, ma anche le ti, le zeta, le ci, le effe, le esse, le rime petrose, i fonemi aguzzi, gli spruzzi di umorismo, gli sprazzi di agudezas, gli spritz. Ecco un esempio di versificazione consentita: il morbo obbliga a lievi mormorii/mugugnando mannaggia e mamma mia/non dardeggiare dalle labbra/diramando bava in aria/non maramaldeggiare nella rabbia/dire nomi molli/verbi benevoli/lemmi malleabili/guarire me lui loro/dando ognora del lei/da lungi". Ci fa bene, e tutti noi dobbiamo sentire il dovere di stare bene "di mettere da parte il nostro sabotatore interno che ci spinge a comportamenti irresponsabili: a che serve stare davanti a un bar con con un bicchiere in mano assieme a cento persone? Forse è il caso di parlare meno e chiedere anche agli altri di parlare di meno. Non è che abbiamo tanto da dirci e non si spiega il fatto che parliamo tanto. Aprire la bocca apre la strada al virus. Il silenzio è importante come il lavarsi le mani" è l’ultimo dei dieci esercizi di salute morale che, sempre ieri, ha regalato a tutti noi il poeta Franco Arminio. Non ce lo dimentichiamo, quando tutto sarà finito, di ringraziare anche ai poeti.