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 2020  marzo 13 Venerdì calendario

Il mondo di isole artificiali

I continenti stanno affondando! Non è la minaccia che in un futuro più o meno prossimo si innalzerà il livello dei mari per via dello scioglimento dei ghiacci. È qualcosa di attuale e riguarda le 300 isole artificiali costruite presso la costa del Dubai e disposte in modo tale da riprodurre il profilo dei continenti del mondo. Si tratta di un enorme progetto immobiliare realizzato drenando sabbia e portando rocce così da comporre un arcipelago disegnato come una gigantesca cartina geografica. Il progetto si chiama The World (Il Mondo) ed è cominciato nel 2003. Altro che Venezia! ha un’estensione pari a sei volte la Laguna. Ma se questa è lì da secoli, con le sue isole che sono in parte artificiali, The World appare alquanto effimero. Si è saputo che la isole si stavano erodendo: “I canali scavati tornano a riempirsi e, se le cose continuano così, il tutto presto tornerà sotto la superficie” riferiva il servizio stampa messicano Buscador de Arquitectura nel 2011 ma ripubblicato recentemente perché in vista di Expo 2020 il Dubai ha rilanciato l’iniziativa, rimasta in parte sospesa dopo che la crisi del 2008 aveva allontanato molti potenziali investitori.
L’impresa non è piccola: per costruire le isole sono stati drenati e spostati 300 milioni di metri cubi di sabbia e dislocati 47 milioni di tonnellate di rocce. L’opera è stata attuata dopo il successo di un simile, precedente sviluppo immobiliare sul mare, Palm Jumeirah e Palm Jebel Ali: lingue di terra che s’inoltrano sull’acqua in forma di palmizi – ma queste sono protette da alti moli di pietra che le avvolgono ad ansa. Un progetto che è stato contestato da organismi ambientalisti perché inciderebbe negativamente sull’ecosistema locale. Inoltre sorge la domanda: perché spendere miliardi di dollari per costruire nel mare tra difficoltà e incertezze, quando si potrebbero stabilire nuovi insediamenti nel vasto territorio interno, dove con investimenti molto più contenuti si potrebbe rendere verdeggiante il deserto a tutto vantaggio dell’agricoltura e del clima? Quando il quotidiano “The Guardian” pose il quesito Mohammed Rashed Bin Dhabeah, manager di Nakheel, compagnia immobiliare governativa del Dubai, rispose: «Ogni anno vengono 14 milioni di persone sulle spiagge degli Emirati, ma ne abbiamo solo 60 chilometri: dobbiamo crearne di nuove».
Il rapporto tra l’essere umano e il mare è costellato da opere simili che tuttavia perlopiù sono state edificate, o per proteggersi, o per estendere il suolo agricolo; o strappando terre al mare, o stabilendo nel mare presidi abitabili. Il caso di Venezia è il più noto: la Laguna è stata popolata, accudita, migliorata e le sue isole sono state ampliate poco alla volta sin dall’antichità. Ma paradigmatica è anche l’evoluzione dell’Olanda, il cui territorio per quasi un terzo è sotto il livello del mare e resterebbe inondato senza il sistema di terrapieni e dighe che già i suoi primi inquilini, gli antichi frisoni, quasi due millenni e mezzo or sono presero a costruire per difendere dalle acque i villaggi in quelle terre basse. Poi gli olandesi hanno continuato a erigere sbarramenti sempre più poderosi, e canali e opere idriche coadiuvate, a partire dal basso medioevo, da sistemi di drenaggio azionati dai mulini a vento che non a caso sono diventati l’icona di quella na- zione. A più riprese anche nel XX secolo sono state elevate dighe, alte fino a 11 metri. Il progetto più rilevante è quello dello Zuiderzee (Mare del sud): completato nel 1997 ha trasformato una baia marina in un lago interno circondato da terre fertili grazie a un sistema di barriere lungo 32 chilometri che protegge un’area di 2.318 km quadrati e che l’American Society of Civil Engineers ha inserito nel novero delle Sette meraviglie del mondo moderno. E, oltre alle dighe, l’Olanda ha costruito anche molte isole artificiali. Per esempio, per consentire l’estensione urbana di Amsterdam nel quartiere di Ijburg ne sono state edificate sei negli anni recenti: ospiteranno circa 45 mila nuovi residenti. Un altro esempio è Marker Wadden, un arcipelago artificiale completato nel 2016 nel lago Markermeer come riserva naturale il cui fine è di migliorare l’ecosistema locale.
Hong Kong non è da meno: il suo aeroporto è stato costruito unendo le due isole di Chek Lap Kok e Lam Chau. Il braccio di mare che le separava è stato riempito e la superficie risultate è stata ulteriormente estesa sottraendo alle acque quasi dieci chilometri quadrati. Anche in Giappone c’è un aeroporto posato sul mare: è quello di Kansai a Osaka. È stato completato nel 1994 su progetto di Renzo Piano e sta su di un’isola artificiale che, si sapeva, si sarebbe lentamente abbassata: all’inizio scendeva di mezzo metro l’anno poi, assestandosi, la velocità di abbassamento è diminuita, tuttavia sempre richiederà continue attenzioni. Ma il paese che ha realizzato il numero maggiore di opere sull’acqua in questi ultimi decenni è la Cina. Quelle più note sono le isole artificiali del Mar della Cina meridionale (che sono contese da Vietnam, Taiwan, Filippine): forse servono anche per la pesca, ma certamente sono presidi militari volti a garantire la navigazione commerciale in quelle acque attraversate dal più intenso traffico marittimo del mondo. La più nota è l’isola Spratly, dotata di porto e aeroporto posati su di un un banco corallino semisommerso. Altre isole artificiali sono state realizzate dal Myanmar, dalla Germania, dall’Australia, da Singapore, e da diversi altri paesi.
Per solito sono opere che si distinguono, rispetto a quelle realizzate nel Golfo arabo, per essere imprese di valore collettivo e perché ricadono sotto la categoria del necessario, come a Venezia o in Olanda, o dell’utile come a Hong Kong: non sono lavori dalle finalità strettamente private e collegate al lusso, che a volte sconfina con l’inutile, se non con il dannoso.