Il Messaggero, 13 marzo 2020
Intervista allo scrittore Giorgio Fontana
Prima di noi (Sellerio, 896 pagine, 22 euro), il romanzo a cui Giorgio Fontana, classe 1981, ha lavorato nell’ultimo decennio, comincia a Caporetto, attraversa il fascismo, la resistenza, il 68 e gli anni Novanta fino al nuovo secolo. Dal Friuli rurale si arriva alla Milano contemporanea. Il racconto delle quattro generazioni della famiglia Sartori, dal 1917 al 2012, si amalgama con la storia del Novecento italiano. Il motore è il capostipite Maurizio Sartori. Un giovane che dopo aver combattuto sul Carso, durante la ritirata di Caporetto diserta tre volte: dall’esercito, dalla donna di cui si era innamorato e aveva messo incinta.
Fontana, che cosa esprime il desiderio alla diserzione di Sartori?
«Guardando oltre i suoi comportamenti, tutt’altro che coraggiosi, volevo comprendere quali fossero i demoni di una persona che aveva affrontato l’inferno per due anni sul fronte. Nel romanzo la triplice fuga segna la storia dei Sartori: ognuno di loro cerca di combattere con questa eredità, con un senso di rabbia e infelicità irrisolvibile. Il gesto di Maurizio è un rifiuto integrale del massacro indiscriminato e folle».
In che modo si legano le generazioni nel romanzo?
«Walter Benjamin ha scritto: C’è un’intesa segreta tra le passate generazioni e la nostra. Credo che in Prima di noi ci siano due direzioni temporali. Quella cronologica dal passato al futuro, nella quale le varie generazioni si accumulano e ognuna tenta di liberarsi dagli errori della precedente, perlopiù fallendo. L’altra invece rende giustizia all’idea benjaminiana per la quale si ha una responsabilità nei confronti del passato. La generazione conclusiva dei Sartori riesce a provare compassione per chi è venuto prima».
Che cosa significa per uno scrittore fare ricerca storica?
«Non si deve sopravvalutare la memoria privata, tralasciando l’indagine storica. Devo basarmi sui fatti ricostruiti e verificati senza privare il romanzo della propria libertà».
I Sartori come attraversarono il ventennio fascista?
«Nella storia che racconto non c’è nessun Giacomo Matteotti o Carlo Rosselli. Il rifiuto di Gabriele, figlio di Maurizio, del fascismo ha quasi delle ragioni estetiche. L’antifascismo del fratello Renzo si avvicina alla lotta resistenziale partigiana. Maurizio ribadisce il proprio anarchismo».
Lei si sofferma su un anno cruciale della storia repubblicana: il 1978, con il sequestro di Aldo Moro.
«Quel capitolo è un perno del libro, perché appaiono tutti i Sartori. Ho indagato quell’anno chiave, facendo risaltare aspetti secondari ma altrettanto rilevanti».
Dal Friuli si approda a Milano, evocando anche la strage di Piazza Fontana. Come si è evoluto il rapporto della città con la sua memoria?
«I buchi neri nella storia dello stragismo sono ancora molti e gravi. Le questioni irrisolte pesano. Nella propulsione verso il futuro, Milano perde qualcosa della propria identità. Non c’è da rimpiangere un passato migliore, ma si sta dimenticando l’educazione operaia di Milano. Non può svilupparsi solo a misura di ricchi investitori».