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 2020  marzo 12 Giovedì calendario

Intervista a Ornella Vanoni

Essere nati nel 1934: «Io quando urlava la bufera, c’ero. E c’ero quando fischiava il vento e il sibilo delle bombe rappresentava la normalità. Avevo undici anni e l’Italia era in guerra. Esattamente come oggi». Nell’affrontare un nemico senza divisa con i soli anticorpi della saggezza, Ornella Vanoni sceglie di stare in trincea. Gel, fazzoletti, mascherina e disinfettante sul tavolo: «E poi sacrificio, responsabilità e disponibilità a rinunciare a una convivialità che fino a ieri ci sembrava naturale».
Seduta su una poltrona, nel silenzio di un pomeriggio sospeso tra timore e speranza, Ornella misura le distanze della nuova era con la prudenza. «Non le ho dato la mano e mi scuso. Dobbiamo abituarci a reprimere l’educazione formale e se serve − e serve − anche i nostri desideri. Non abbraccio più nessuno da giorni e non sottovaluto il pericolo. Il virus è già mutato tre volte, lo inseguiamo e quello è già altrove. Diverso. Metamorfico. Sfuggente. Non credo che minimizzare ci aiuterà a superare l’emergenza. Perché come le dicevo di questo mi pare si tratti. Di un’emergenza senza precedenti».
Sentirla parlare di guerra un po’ turba. «È una di quelle occasioni in cui le sensazioni coincidono con la realtà. Però sta anche a noi limitare le occasioni di contagio. L’unica protezione che abbiamo è l’isolamento. Dobbiamo rispettarlo. Per noi e per gli altri. Il coronavirus può colpirci e può non colpirci. Proprio come nel ’45 quando cadevano le bombe, fuggivamo nei prati e mio padre mi si buttava addosso per proteggermi dalle schegge».
Cosa ricorda della guerra?«Dormivamo vestiti, con le scarpe. Aspettavamo la punizione dal cielo e la punizione, puntualmente, arrivava. Il primo bombardamento ce l’ho ancora davanti agli occhi. Il fuoco, le fiamme, la gente che correva verso la Stazione Centrale. Ero piccola e non sapevo ancora cosa fosse la paura, però la vedevo. La vedevo negli occhi degli adulti».
Oggi la vede?
«Vedo Milano deserta. Di solito le città vuote mi angosciano, ma questa volta meno. Mi dispiace però so che le persone sono a casa per un motivo e rinunciano alle abitudini con l’obiettivo di tornare a riempire le piazze domani».
Milano è dinamica, viva, frenetica.
«Di certo Milano non ha il cielo meraviglioso e sempre in movimento di New York, ma per quasi tutto il resto in pochi anni è arrivata a competere con una metropoli del genere. Vedere arrivare i turisti nella stessa città che Luciano Bianciardi, negli anni ’60, descriveva come un luogo grigio e senza fascino, mi lasciava incredula. Un risultato incredibile e un sogno a occhi aperti che ora ha imposto un risveglio brusco. Mi rendo conto che sia molto difficile da accettare. È quasi come tornare al punto di partenza».
Come si riparte?
«Armandosi di santa pazienza. Una dote che Milano in passato ha sempre avuto e alla quale la globalizzazione ci ha di- sabituato. Ha superato la peste, la guerra, il terrorismo, la corruzione. Ce la farà anche questa volta. Se ce l’ha fatta la Berlino del dopoguerra ce la farà anche Milano».

Dovrà ripensarsi, come tutto il mondo.
«Dovrà farlo. E non sarà semplice. Sulla città, una enclave furiosa che aveva sempre fatto della furia creativa e progettuale la propria forza, si è abbattuta una sorta di piaga d’Egitto. La piaga si lenirà. Ma ci vorrà tempo. D’altra parte non è che altrove le cose vadano meglio. È tutto un dolore questo mondo».
Non è una consolazione.
«Ovviamente. Però guardi alla Siria e non piangere è impos- sibile. Guardi allo sforzo dei medici, i nostri medici che non dormono più e non commuoversi è difficile. L’epoca è molto buia, c’è poca luce. Una luce intermittente. Come quando ero bambina e con i miei genitori attraversavamo i tun- nel autostradali. Mi mettevo le mani davanti agli occhi e gridavo “lumino” cercando di tracciare al buio la distanza tra un fascio luminoso e l’altro. In questi giorni ci troviamo un po’ nella stessa condizione. Procediamo a tentoni. In cerca di una luce».
Quella di Milano l’ha saputa trovare?
«Sono stata in tanti luoghi, ma poi alla fine sono tornata a vivere qui. Non so se sia un posto verso cui sia semplice provare nostalgia, ma ha un suo profondo magnetismo. È la mia città. La città che ho amato, quella che dopo la guerra trovai senza alberi perché li avevano tagliati per farne legna e scaldarsi, del Bar Basso, delle pensioncine di Brera con le cartomanti per strada e degli artisti al Jamaica, quella delle corse dei cavalli a San Siro a cui mi portava mia madre, in cui giravano poche macchine e la vita era festa, speranza, promessa di domani. In quelle strade ho dato il mio primo bacio, incontrato Gaber e Jannacci ragazzi, Dario Fo, Strehler, Cochi e Renato. Gente colta e intelligente, ma giocosa».
Perché lo premette?
«Perché c’è chi quando parla incanta e c’è chi annoia. Non è detto che tutti gli intelligenti siano per forza dei rompicoglioni, i miei amici sapevano essere anche superficiali. Leggeri. Quanto ci manca la leggerezza. Quanto la rimpiango».
È complesso trovarla in giorni come questi?
«Ci muoviamo nella nebbia. Come nella Milano che non esi- ste più e in cui una volta superato il cancello di un metro − non ha idea di quante volte mi sia successo davvero – non sa – pevi più dove ti trovavi. C’era da avere paura».
Quante volte l’ha provata nella vita?
«Un’infinità. Era una paura quasi ancestrale, una paura che avevo ereditato da mio padre. Aveva visto morire il suo da un giorno all’altro. Per dire la convergenza delle epoche, di broncopolmonite. Da un giorno all’altro».
Oggi ha paura?
«Le ho combattute per tutta la vita, le mie paure. Ne sono venuta fuori, non senza fatica. Ma avere paura del virus non è sbagliato. Ci aiuta a essere uniti. A non essere superficiali. È una paura tangibile, vera, concreta questa. Non è timidezza. Non è la paura di chi deve salire su un palco ed esibirsi. Ma per superare entrambe ci vuole coraggio».
Milano lo possiede?
«Milano è stata in piedi per due cose. Per la sua capacità di lavorare, innata, una specie di corredo genetico del milanese. E per il coraggio. Un coraggio scevro da qualsiasi retorica. È una città fredda. L’ha sempre avuto. Lo avrà anche in questa occasione».
Cosa farà in questo tempo immobile?
«Leggerò. Scriverò. Penserò. Steve Jobs ci invitava a meditare due volte al giorno. Seguirò il suo consiglio».
L’isolamento stimolerà la fantasia?
«Sa cosa diceva Arnaldo Pomodoro agli studenti che contestavano fuori dalla Triennale?».
Cosa?
«Ma cosa cazzo volete? Volete davvero la fantasia al potere? Allora sappiate che la fantasia non esiste. È solo un sogno che avremmo dovuto sognare».
In attesa dei miracoli?
«Non credo ai miracoli. L’unico miracolo di Milano è quello di De Sica».