Corriere della Sera, 12 marzo 2020
L’isolamento visto dai single
Si sta come se avessero prolungato il Ferragosto ad libitum. Per chi è single davvero, per chi non risponde al cliché ormai stantio del farfallone gaudente o della maliarda spendacciona, per chi insomma non ha proprio una relazione stabile (anche da molto tempo) e gestisce una vita sociale così così, stare soli è un aspetto di questa quarantena che suona familiare.
La solitudine per un single è l’alfa e l’omega. Può essere il rifugio accogliente che lo aspetta chiusa la porta di casa, oppure l’angoscia che lo assale di notte se il battito accelera all’improvviso. La solitudine è un abito che il single indossa tutti i giorni. Solo che in alcuni casi gli sta molto stretto. Diventa soffocante quando si avverte il contrappunto rumoroso delle vite altrui. Ma toglie il fiato anche quando quel sottofondo manca del tutto e si spegne, come in un Ferragosto passato in città.
Da quando la quarantena è iniziata, questi single (che spesso si confessano sui blog) sembrano sospesi tra il sollievo di sapere che la propria vita non è cambiata più di tanto (niente baci e abbracci, esattamente come prima) e il pensiero martellante che per gli altri, quelli «normali», questa sospensione della socialità è puntellata almeno da un conforto familiare. Allora provano a uscire, a annusare un po’ di umanità in giro. È quello che fanno normalmente molti single, da soli, nel weekend: uscire, correre al parco, andare a vedere una mostra, provare a sfiorare gli altri, come si fa sedendosi al cinema. Ma uscire ora, ai tempi della quarantena, è diverso. Quel metro di distanza, quella deviazione verso il marciapiede opposto, quello sguardo che non si incrocia più, quei sorrisi una volta occasionali, ora coperti dalle mascherine, sono la negazione anche di quel minimo contatto di cui si godeva. Si ripiega così sul supermercato (la spesa a domicilio ci mette due o tre giorni a arrivare), ci si fa coccolare da qualche acquisto proibito, si socializza con la cassiera.
E si torna dentro. Sì, ma a che fare? Se prima portarsi il lavoro a casa era una strategia per riempire i weekend solitari, adesso che il lavoro a casa per molti è diventato una realtà quotidiana, non resta che mettere mano a quello che si è sempre rinviato. Pulire casa da cima a fondo. Farsi la tinta da soli. Finire la pila di libri ammonticchiati sul comodino. Vedere finalmente le serie tv. Provare a fare una Saint Honoré. E magari andare sui social per vedere che le foto degli altri al mare adesso hanno come sfondo il lavello.
Scende la sera e il silenzio non è mai stato così profondo. Aprire le finestre e respirarlo dà quasi il capogiro. L’ultimo giro di Amuchina prima di dormire. Meglio puntare la sveglia. Il mondo là fuori ormai ha smesso di farcela.