Il Sole 24 Ore, 11 marzo 2020
I cinque precedenti di tracollo globale
Una durata media di 15 mesi, nel corso della quale finisce in fumo il 37% dei risparmi. Dura resistere agli artigli dell’Orso che graffiano quando i mercati azionari globali arrivano a perdere più del 20% del valore, proprio come in queste ultime settimane. Se si guarda l’indice Msci World sono cinque le fasi del genere che si sono verificate negli ultimi 50 anni: ciascuna, riassume uno studio di Capital Group, diversa dalle altre.
Si va dalle più fulminee e anche relativamente meno profonde risalenti al 1987 (Black Monday) e 1989 (saving and loan associationUsa) – con perdite del 20% e del 24% e tempi di recupero di appena 12 mesi nel primo caso – a quelle profonde e durature del 1973 (crisi energetica) del 2000 (bolla internet) e 2007 (crisi subprime culminata con il fallimento Lehman). Queste ultime hanno richiesto un periodo dai 3 anni ai 4 anni per tornare al punto di partenza dopo crolli dei prezzi che, nell’ultimo episodio, hanno raggiunto anche il 54 per cento: sono state più traumatiche e costose, dunque, ma alla fine il mercato è pur sempre tornato in salute e ha recuperato.
In generale – e comprendendo anche le frenate superiori al 10%, ma che non arrivano al limite del 20% oltre il quale scatta il classico bear market – le discese delle Borse sono ovviamente più marcate e persistenti quando vengono accompagnate da recessioni, con una mediana del 33,6% e di 17 mesi contro -15,6% e 5 mesi registrati in caso di mancata frenata dell’economia. Presentano settori in grado di oppure una migliore (anche se non assoluta) resistenza alle vendite: tipicamente le aziende che producono beni durevoli o le utility, a scapito invece dei titoli finanziari, degli industriali e quelli legati alle materie prime che invece restano i più colpiti dalla furia degli investitori.
I loro effetti possono infine essere mitigati da una costruzione più equilibrata del portafoglio, con un’esposizione maggiore sulle obbligazioni. Quest’ultima classe di investimento ha infatti offerto uno scudo protettivo, limitando la volatilità nei casi che si sono verificati negli ultimi tre decenni (con l’eccezione della frenata del 2010, che almeno per quanto riguarda l’Eurozona ha visto finire sotto pressione anche i bond). E anche ciò che sta avvenendo in queste ultime due settimane – con la fuga verso i titoli di Stato tedeschi e Usa assaltati come «beni rifugio» – sembrano confermare la regola.
Ma è guardando a cosa è successo dopo le principali debacle dei mercati globali che il discorso si fa forse più interessante agli occhi di un investitore. Il recupero, se pur a volte piuttosto graduale, è infatti stato decisamente durevole (88 mesi in generale) e ha portato lo stesso indice a totalizzare un rialzo medio del 283%, quindi quasi a quadruplicare il valore rispetto ai minimi toccati durante la crisi. Questo significa che mosse avventate, così come il tentativo di indovinare l’istante esatto in cui entrare o uscire da un mercato, possono impattare in modo significativo e negativo anche su un portafoglio equilibrato.
«Un investitore fortemente avverso alla perdite, che si fosse precipitato a vendere il 50% delle proprie azioni quando il mercato avesse accusato un calo di appena il 10%, per rientrare poi seguendo il gregge nel momento in cui i prezzi sono risaliti del 25% rispetto ai minimi, si sarebbe perso in media un rendimento cumulativo fino al 73% nei cinque anni successivi», osserva Tim Armour, gestore di Capital Group. Il risultati dell’analisi, che si basa sui già citati grandi cali di Borsa relativi al periodo 1970-2019 e sull’esame dei rendimenti che si sarebbero ottenuti nei 12, 36 e 60 mesi successivi al momento in cui l’ipotetico investitore «impulsivo» avesse lasciato il mercato, risulta decisamente meno penalizzante nel caso di comportamenti meno precipitosi.
Giunge poi alla conclusione che «più a lungo l’investitore attende di rientrare nel mercato, più dannose sono le potenziali conseguenze», e soprattutto, aggiunge Armour, che «rimanere investiti può aiutare a ottenere rendimenti più elevati». Per il classico «cassettista» che acquista le azioni e le mantiene nell’arco di 20 anni, 100.000 dollari investiti tra nel 1970 si sarebbero adesso trasformati secondo Capital Group in oltre 750.000 dollari: una cifra che supera dal 15% al 25% quella ottenibile da chi invece movimenta il portafoglio cercando di mitigare o cavalcare le crisi. Mantenere i nervi saldi sembra dunque dimostrarsi ancora una volta la regola fondamentale in situazioni simili: semplice da ricordare, molto più difficile da seguire.