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 2020  marzo 10 Martedì calendario

L’intubazione, spiegata bene

La nostra esistenza dipende da un tubo. La trachea mette in comunicazione la laringe con i bronchi e ci permette di fare entrare e uscire l’aria dai polmoni, in ogni istante di ogni giorno, per tutta la vita. Anche adesso, mentre state leggendo queste parole, l’aria passa attraverso la vostra trachea, gonfia i polmoni e ossigena il sangue. A volte, però, serve un altro tubo.
Da giorni la vita di centinaia di persone ricoverate nei reparti di terapia intensiva degli ospedali di Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna per gravi polmoniti da coronavirus dipende da un tubo che attraversa le loro corde vocali, e nel quale viene pompata aria per aiutarli a respirare. Da soli non ce la farebbero perché i loro polmoni sono infiammati e hanno ferite che faticano a rimarginarsi. Sono “gli intubati” di cui si parla spesso sui giornali e nelle statistiche: sappiamo che esistono, ma senza avere un’idea precisa di cosa significhi davvero vivere per settimane con un tubo in gola.
Per intubare i pazienti, è necessario sottoporli ad anestesia generale, una condizione in cui ogni singolo paziente rimane poi per diversi giorni. L’anestesia serve sia per facilitare l’inserimento del tubo nella trachea, sia per evitare che i pazienti siano coscienti e cerchino di contrastare involontariamente la respirazione indotta dal ventilatore (il macchinario collegato al tubo che immette e preleva aria inducendo i polmoni a gonfiarsi e sgonfiarsi). Se i pazienti cercassero di respirare mentre c’è la macchina attiva, rischierebbero di peggiorare ulteriormente le condizioni dei loro polmoni.
Oltre agli anestetici, i rianimatori (gli anestesisti che lavorano in terapia intensiva si chiamano così) somministrano farmaci miorilassanti, che servono cioè a rilassare la muscolatura, in modo che i polmoni restino flosci e reagiscano meglio alla ventilazione. I farmaci incidono su buona parte della muscolatura dei pazienti, che quindi possono essere spostati periodicamente a pancia in giù (“pronazione”), in una posizione che può migliorare l’ossigenazione dei polmoni. È una procedura molto delicata che richiede l’intervento di 4 o 5 persone, a seconda della stazza e delle condizioni di ogni paziente.
Dopo qualche giorno, se le condizioni migliorano, il rianimatore può disporre un progressivo risveglio del paziente, anche se ancora intubato. In questo modo si può valutare il recupero nella capacità di respirare autonomamente e si può utilizzare il ventilatore come aiuto: la macchina rileva quando il paziente inspira o espira e lo aiuta a trasportare la giusta quantità d’aria per fare lavorare correttamente i polmoni. Se tutto procede bene, dopo una o più settimane, il paziente può uscire dalla terapia intensiva e proseguire altrove la convalescenza.
Insomma, l’intubazione è una cosa seria e richiede la costante presenza del personale medico: per questo viene effettuata nei reparti di terapia intensiva, dove ci sono strumenti e risorse per intervenire tempestivamente nel caso di imprevisti. Il problema è che con l’attuale sovraccarico degli ospedali, le terapie intensive sono quasi al colmo, soprattutto in Lombardia. La situazione più difficile è a Bergamo, la provincia lombarda con più casi da coronavirus (il sindaco è molto preoccupato): i posti letto per i casi gravi di COVID-19 sono stati portati da 32 a 40 nelle ultime ore, ma questo ha implicato un’ulteriore riduzione dei posti letto per chi ha altri problemi di salute.
Anche per questo motivo meno persone contagiate fanno la differenza: perché significa che ci saranno meno casi gravi da coronavirus da trattare in ospedale, e quindi più risorse (medici, posti in terapia intensiva, ventilatori) da destinare ai pazienti.