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 2020  marzo 10 Martedì calendario

Stasera a casa di Boris Vian

Sulla porta di vernice verde la targa dice solo: “Ingegnere, musicista”. Romanziere incompreso da vivo, Boris Vian aveva smesso di scrivere a trentatré anni dopo la sfortunata pubblicazione de Lo strappacuore che avrebbe dovuto essere l’inizio di una trilogia. Dopo i lunghi contenziosi giudiziari provocati da Andrò a sputare sulle vostre tombe, le critiche alla sua tenera e immaginifica storia d’amore La schiuma dei giorni, i vari rifiuti dell’editore Gallimard, Vian si era convinto che la letteratura non facesse per lui e si era dedicato alle traduzioni, al teatro, alla musica, prima di essere stroncato da un infarto.«Forse senza quel cuore fragile si sarebbe cimentato nel cinema, nella televisione o in chissà cos’altro ancora» ci racconta Nicole Bertolt, rappresentante dell’opera dell’artista francese, accogliendoci a Cité Veron. In questo angolo sopra al Moulin Rouge a partire dal 1953 si era creata una piccola comune. Oggi le finestre della casa di Jacques Prévert, amico e vicino, sono sbarrate. La nipotina, unica erede, non la fa quasi mai visitare. L’appartamento di Vian, un labirinto di stanze tappezzate di libri, dischi, manifesti, reliquie, è invece un luogo vivo, dove abita Bertolt che per fortuna non si comporta come una custode del tempio ma si entusiasma nel ricevere e scambiare aneddoti e citazioni. «Non mi sento in un museo, anche perché nessuno potrebbe rinchiudere Vian in un museo» spiega questa donna dallo sguardo chiaro e curioso, che per «vari incidenti della vita» si è ritrovata a fare l’assistente della vedova di Vian, dopo aver lavorato in istituti psichiatrici, redazioni di giornali e radio, aver abitato qualche anno a Roma.
Bertolt ci offre un tè caldo con biscotti, mostrandoci la cucina gialla e violetta, i colori preferiti da Vian. Tutto è rimasto come quando ci viveva l’artista e poi la vedova, la ballerina Ursula Kubler morta nel 2010. Alla Cité Veron sono passati anche tanti italiani, come Marcello Mastroianni o Vittorio Gassman. «Per loro c’era sempre un piatto di minestra calda». Vian e Ursula non hanno mai navigato nell’oro. «Lui costruiva tutto con le sue mani. Ha fatto alcuni mobili e librerie ma anche il sistema elettrico e di riscaldamento». C’è ancora una quincaillerie, lo sgabuzzino con i suoi attrezzi di lavoro, pezzi di catene di biciclette, coperchi, rottami. Bertolt chiudere subito la porta, «per mantenere l’odore». La poltrona fatta di corda e legno, altissima, è un’altra creazione originale dell’artista, ingegnere di formazione. Tra il porta inchiostro e la macchina da scrivere – anche se Vian preferiva fare il primo getto con la sua amata Bic – Bertolt ancora oggi si siede per rispondere alle lettere degli ammiratori, molti giovani. Passano le generazioni, ma gli adolescenti continuano sentire una vicinanza particolare con il Bisonte, come si faceva chiamare. «Sono spesso i ragazzi che portano i genitori in questa casa» racconta Bertolt che in occasione del centenario della nascita dell’artista ha aperto Cité Véron per visite su prenotazione attraverso il sito.
Morto troppo presto, era anche nato nell’epoca sbagliata, in quel 10 marzo 1920. «Solo oggi ho finalmente l’impressione che l’opera di Boris Vian sia pienamente apprezzata. È stato un genio multimediale prima del tempo» osserva Bertolt. Una sorta di rivincita postuma? «Forse sì, almeno per chi come me ha faticato a lungo per ottenere il giusto riconoscimento». Vian è entrato tardivamente nella Pléiade, solo a partire dagli anni Ottanta tutti i suoi romanzi hanno cominciato a essere tradotti, in Italia da Marcos y Marcos.
Al muro è appesa la chitarra lira a dodici corde che Vian aveva cominciato a usare quando i suoi problemi di cuore non gli permettevano più di usare la sua «trompinette». In un video del 1955, seduto alla terrazza di Cité Véron, lo si vede strimpellare una canzone in italiano: “Panino, vitello, formaggio e brodo di pollo”. In un quadro c’è il manoscritto de “Il Disertore” che nella prima versione si concludeva con: «E dica pure ai suoi/se vengono a cercarmi/che tengo un’arma/e so anche usarla». Era il 1954, guerra d’Indocina. Nessuna casa discografica accettò di incidere la canzone. Alla fine, Vian cambiò l’ultima strofa in un manifesto pacifista senza più ambiguità.
Un’altra parete è coperta dai 33 giri, i cofanetti rilegati di Charlie Parker, Louis Armstrong, Coleman Hawkins. «Ha incominciato a collezionarli da adolescente, li usava per fare i surprises- parties nella casa di Ville d´Avray», non lontano dalla capitale, dov’era nato. Suonava con i fratelli, avevano creato il gruppo Accord Jazz. La musica era una passione di famiglia. La madre era pianista, il padre ascoltava Carlos Gardel. Per lui è il jazz senza il quale, diceva, «la vita sarebbe un errore». Lo chansonnier Vian ha firmato oltre seicento canzoni, molte inedite e mai messe in musica. Con la «trompinette» suonava per gli americani nelle caves di Saint-Germain, il suo quartier generale. Il café Les Deux Magots organizza una mostra per celebrare il centenario.
Una sorta di collage fatto con scatole di medicine è nel salone. «I suoi problemi di cuore sono cominciati da adolescente, sapeva che non aveva tanto tempo davanti». Un senso di urgenza che ha alimentava la sua traboccante creatività. Nella casa non c’è più la trombetta, di cui è rimasta solo una custodia, ma la chitarra lira e un “pianocktail” che s’ispira al pianoforte e rimanda all’ebbrezza tra jazz e alcol. Nella musica, Boris Vian ha fatto tutto: compositore, paroliere, musicista, interprete, critico, discografico. «Solo, non amava danzare» aggiunge Bertolt. Onnivoro, ecclettico, visionario. Il calendario per celebrarlo prevede più di cento pubblicazioni, conferenze, spettacoli, eventi. Bertolt, che oggi è delegata dal figlio Patrick Vian, racconta che quando riceve una proposta per canzoni, testi teatrali, sceneggiature o qualche altra idea non dice mai di no. La risposta è «sì, ma». Ed è l’inizio di un dialogo. «Perché Vian ci insegna la libertà».