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 2020  marzo 10 Martedì calendario

I 50 anni di “Bitches Brew” di Miles Davis

Uno choc. Per i fan di vecchia data, per i critici musicali, per tanti giovani musicisti, per i rockettari mai prima di allora si erano accostati al jazz. Cinquant’anni fa, il 30 marzo 1970, usciva Bitches Brew, doppio lp di Miles Davis destinato a rivoluzionare la storia della musica. Attaccata la spina, Miles elettrificava il jazz, ibridandolo con ritmiche e timbri prossimi al rock e al funky. Un universo di inedite sonorità si riversava sull’ascoltatore, chiamato a inoltrarsi in terre sconosciute. Chi aveva amato quel suono cristallino, quello struggente lirismo che, come per magia, si levava dalla sua tromba raffinata, chi aveva consumato i solchi dei dischi incisi al tempo del quintetto con Red Garland al piano e John Coltrane al sax o di quello successivo con Herbie Hancock e Wayne Shorter, non si capacitava della metamorfosi. «Quando cominciai a cambiare così velocemente - ha affermato Miles Davis - molti critici mi stroncarono perché non capivano cosa stessi facendo. Ma i critici non hanno mai avuto molta importanza per me, e continuai per la mia strada, cercando di crescere come musicista». 
A dominare in Bitches Brew erano lunghe suite - «Pharaoh’s dance», «Bitches Brew», «Spanish key» - che nel distendersi anche per un’intera facciata di 33 giri avvolgevano l’ascoltatore in incalzanti spire ritmiche, su cui si innestavano via via gli interventi di piano elettrico, chitarra, sax, clarinetto basso. E da questo flusso sciamanico e ipnotico si stagliavano le note della tromba del leader: parche, reiterate, diradate, atte a creare una sensazione di straniamento, di stasi solenne, di sospensione spazio-temporale. 
Oltre al fidato Wayne Shorter, Miles Davis si circondò di uno stuolo di giovani musicisti destinati a sfolgoranti carriere, basti pensare al virtuoso della chitarra John McLaughlin, ai tastieristi Joe Zawinul e Chick Corea, al contrabbassista Dave Holland, al batterista Jack DeJohnette. Più interessato a plasmare il collettivo che non a ritagliarsi spazi da solista, in studio di registrazione Miles Davis fornì pochissime indicazioni, solo qualche sequenza di accordi e poco più, spronando i musicisti a improvvisare liberamente su molteplici e brevi «take» che, successivamente, sarebbero state selezionati, tagliati, riassemblati econdo un meticoloso lavoro di editing, cui contribuì non poco il produttore Teo Macero. Un procedimento eretico per un gruppo jazz, un nuovo modo di intendere ed esprimere la creatività compositiva. Anche la copertina, opera di Abdul Mati Klarwein, lo stesso autore della psichedelica immagine scelta da Santana per Abraxas, con i suoi tratti visionari e mistico-esoterici annunciava la sconvolgente novità del disco.
«In quel periodo - ha scritto Miles Davis nella sua autobiografia - cominciai a capire che i musicisti rock non sapevano nulla della musica ma erano popolari e vendevano un mucchio di dischi, perché davano al pubblico un certo sound e quello che voleva ascoltare». Se lo facevano loro, si disse il trombettista, «potevo farlo anch’io e anche meglio». Campione di vendite con oltre mezzo milione di copie, cifra stratosferica in ambito jazzistico, Bitches Brew avrebbe accresciuto a dismisura la popolarità di Miles Davis, chiamato addirittura, nell’agosto 1970, a condividere con le star del rock lo stesso palco del Festival dell’isola di Wight.
Il jazz, da allora, non sarebbe mai più stato lo stesso. Fu in questo periodo di inebriante successo che pensò addirittura di coinvolgere Jimi Hendrix in un comune progetto musicale, sogno destinato a infrangersi per sempre la mattina del 18 settembre 1970, quando il geniale chitarrista fu rinvenuto morto a Londra nella sua stanza al Samarkand Hotel.