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 2020  marzo 10 Martedì calendario

I problemi delle carceri italiane

Dice chi se intende, che il carcere vive «di un sottile equilibrio». Un bell’eufemismo per dire che in cella si regge allo stress della detenzione, alla mancanza di droghe (un terzo dei detenuti è tossicodipendente), alle malattie che dilagano, alla depressione, il tutto aggravato dal sovraffollamento, solo perché il detenuto in generale si arrangia. Ma quando nella vita quotidiana del carcere irrompe il coronavirus, e vengono ridotti al minimo i contatti con l’esterno, ecco che questo equilibrio va in frantumi. E subentra la rabbia se non il lucido tentativo di far saltare tutto.
Può sembrare una reazione eccessiva, questa moltiplicazione di rivolte alla notizia che i contatti con i familiari saranno ridotti al minimo e sostituiti nel limite del possibile da contatti telefonici. «Premesso che non giustifico assolutamente le proteste violente - dice Patrizio Gonnella, presidente di Antigone, associazione che cura i diritti dei detenuti - questa restrizione ha fatto da miccia per le tensioni crescenti nelle carceri italiane». 
Il problema è che il detenuto vive in una bolla. L’attesa per incontrare i parenti scandisce il suo tempo. Secondo regolamento, sono 8 colloqui al mese più quelli premio che il magistrato di sorveglianza elargisce quando c’è la buona condotta, più una telefonata di 10 minuti al mese. «Il detenuto incontra anche i volontari, va alla scuola interna, riceve assistenza legale. Se di colpo non vede più niente e magari non è stato informato a dovere, può subentrare la rabbia. Mettiamoci poi che c’è sicuramente chi soffia sul fuoco, quelli che non beneficiano più dei permessi e pensano di non avere nulla da perdere».
C’è anche un non detto, in questa rivolta. E cioè che il blocco verso l’esterno di fatto trasforma la detenzione normale. Se si interrompe il flusso dall’esterno, ne va per quel che è autorizzato, ma soprattutto per quello che non lo è. Un conto infatti è impedire l’arrivo della pasta al forno o della bistecca aggiuntiva (di cui è minuziosamente autorizzato il numero e il peso d’entrata ogni mese, per non permettere al detenuto ricco di disporre di merce di scambio nei confronti dei detenuti poveri), altro è bloccare l’ingresso delle droghe sintetiche o dei cellulari che entrano di straforo.
I rappresentanti della polizia penitenziaria negano che ciò possa accadere. «Noi - dice Donato Capece, segretario del sindacato autonomo Sappe - facciamo i controlli e dentro i penitenziari non entra nulla di illegale». Ma sono i fatti a dire che più di qualcosa sfugge. Qualche tempo fa, nel carcere di Foggia arrivarono in massa a fare una perquisizione e sequestrarono telefonini e dosi di sostanza stupefacente. A Rebibbia, un agente di custodia si accorse che un detenuto stava bellamente telefonando dalla sua cella. A Napoli, in un reparto di Secondigliano dove c’erano 200 detenuti appartenenti alla criminalità organizzata, quando videro arrivare unità cinofile della polizia penitenziaria, dalle finestre volarono via tre telefonini più diverse dosi di hashish. E si potrebbe continuare a lungo.
La vita quotidiana del carcere, insomma, scorre tranquilla anche perché non esiste affatto la decantata impermeabilità con l’esterno. Non per nulla le carceri sono differenziate tra circuito ad alta sicurezza per mafiosi e terroristi, e regime ordinario per tutti gli altri. Ma quando l’emergenza del contagio costringe l’amministrazione ad alzare un muro verso l’esterno, il contraccolpo è forte. 
«Una stretta era necessaria - sostiene Capece - perché bisogna prevenire l’ingresso del virus nelle carceri. Immaginate che può succedere se i detenuti si ammalano in massa». Già che cosa può succedere? Che i detenuti saranno gli ultimi ad andare in ospedale, anche perché il personale di polizia penitenziaria è allo stremo, e le infermerie non sono in grado di assicurare cure sofisticate. «Non si può giustificare il ricorso alla violenza, ma la paura dei detenuti va compresa - dice a sua volta Patrizio Gonnella - e poi, capite, se ha perso la testa chi è fuori, figuriamoci chi è dentro».