La Lettura, 8 marzo 2020
Su "Le Sardine non esistono" di Andrea Garreffa, Roberto Morotti, Mattia Santori e Giulia Trappoloni (Einaudi)
I quattro giovani bolognesi che hanno portato in piazza migliaia di persone in tutta Italia ora si raccontano nel libro Le Sardine non esistono (Einaudi Stile libero). Un testo su cui abbiamo messo a confronto la scrittrice Silvia Avallone e il politologo Maurizio Ferrera con tre degli autori: Andrea Garreffa, Mattia Santori e Giulia Trappoloni (il quarto, Roberto Morotti, non ha potuto partecipare per altri impegni).
MAURIZIO FERRERA — Vorrei fare un doppio complimento a voi Sardine: per il ruolo politico che avete svolto e per il libro, che è una lettura molto gradevole, restituisce il senso della vostra avventura e contiene validi spunti di riflessione. Mi è piaciuto di meno il titolo Le Sardine non esistono, perché disorienta. Esistere in filosofia significa produrre effetti e voi ne avete prodotti molti. Si vuole dire che le Sardine non esistono più, è un messaggio di disimpegno? Oppure che volete trasformarvi? Che messaggio è per le persone che vi hanno seguiti? Non si rischia che rimangano deluse? Stimolare un moto di partecipazione è importante, però non si può vivere in un perpetuo stato nascente. O lo slancio svanisce, oppure si trasforma in una struttura più organizzata, come è successo per i Cinque Stelle.
SILVIA AVALLONE — Sono nata, come le Sardine, negli anni Ottanta. Siamo una generazione ponte: ci ricordiamo che cos’era una cabina telefonica, ma siamo a nostro agio con i social network. E avvertiamo la necessità di costruire un collegamento tra virtuale e reale. Il digitale è una rivoluzione irreversibile, ma bisogna metterla al servizio della realtà. Un grande merito delle Sardine è stato riportare il web a una funzione pubblica capace di incidere su processi reali: dagli account alle persone, dalla piazza virtuale a quella fisica. La sorte della politica, penso, si gioca sulla costruzione di una comunità attraverso l’incontro diretto. Una seconda ragione di vicinanza deriva dal fatto che abito a Bologna, città che definisco «di mare», anche se il mare non c’è: aperta, universitaria, dove la maggior parte delle persone che incontri viene da fuori, un laboratorio di accoglienza con una forte attenzione al sociale. Infine c’è la scelta di venire allo scoperto. Più volte mi sono detta con alcuni amici: dobbiamo fare qualcosa. Ma poi non ci siamo mossi. Le Sardine hanno dimostrato che uscire di casa e sporcarsi le mani è un gesto che può cambiare le cose. Però non basta. Capisco che abbiate bisogno di tempo per definire un’identità ancora fluida, tuttavia non potete non porvi il problema di costruire una struttura in cui incanalare l’energia che avete suscitato.
ANDREA GARREFFA — Cominciamo dal titolo, che è il richiamo a un’affermazione fatta da Mattia Santori, a nome di tutti noi, sul palco di piazza San Giovanni a Roma: non esistono le Sardine, esistono le persone. Ci colpisce il fatto che tanta gente sia stata pronta a indossare una maschera, nel senso positivo del termine, per svolgere un ruolo sociale come Sardine. C’è un forte bisogno di appartenenza a un gruppo, rispetto al quale il titolo suona come un monito: non dimentichiamo che siamo in primo luogo persone. Il nome in fondo non conta. Ci siamo chiamati Sardine, potevamo essere Salmoni o Stambecchi. E lo smarrimento che qualcuno può provare di fronte al titolo è un effetto voluto. Non forniamo risposte, vogliamo generare domande, a cominciare dalla più importante: e adesso? Il libro testimonia e documenta la storia iniziale della nostra avventura, su cui se ne sentono di tutti i colori. Intende anche tutelare la nostra amicizia, da cui tutto è nato. Ma non indica linee programmatiche, è una sorta di fotografia in movimento.
GIULIA TRAPPOLONI — Aggiungo che finora il nome Sardine è stato legato al volto di noi fondatori. Dire che «non esistono» è un modo per uscire da una condizione di leadership che non abbiamo cercato, anche se poi l’abbiamo assunta. D’ora in avanti le Sardine non siamo più solo noi: tutti coloro che lo desiderano possono esserlo.
MATTIA SANTORI — Nella fase di cui si parla nel libro la nostra amicizia ha reso patrimonio comune tutto ciò che uno di noi diceva. Adesso, con la diffusione in tutta Italia, abbiamo il compito di tenere insieme tante voci diverse. D’altronde ci siamo resi conto presto, alla quinta piazza dopo Bologna, che il format era già vecchio, perché se si replica il già visto, non si fa più innovazione. Per produrre altri effetti, in un mondo che va di fretta, dobbiamo cambiare: il titolo ha anche questo significato. Comunque ha ragione Silvia Avallone, credo che le Sardine siano nate proprio nel momento in cui ci siamo sporcati le mani ritagliando i pesci di carta. Quando abbiamo dato alle nostre idee una forma materiale.
MAURIZIO FERRERA — Io direi piuttosto che allora sono nati i cuccioli delle Sardine. Adesso però bisogna crescere. Alcuni vi hanno rimproverato di essere solo un movimento «contro» per il vostro antipopulismo, ma io non la penso così. Sin dall’inizio avete affermato dei valori, che non si possono neanche riassumere nel pur giusto richiamo alla Costituzione. Mi interessa molto, ad esempio, la vostra richiesta di «verità», che è essenziale per ogni comunicazione politica. Questa attenzione verso il rispetto dei fatti da parte dei mass media coincide con le esigenze che ho messo in luce nel libro Il potere della verità, scritto con Franca D’Agostini, che vi manderò. Se si smarrisce la possibilità di assumere come vero ciò che gli altri dicono, crollano le basi della convivenza civile. Quindi v’invito a insistere su questo, specie quando siete invitati dai grandi mezzi di comunicazione, dove spesso gli ospiti hanno licenza di mentire. Si tratta di una grave emergenza per la democrazia, non inferiore a quelle che giustamente segnalate in fatto di rispetto per la diversità e tutela delle minoranze.
GIULIA TRAPPOLONI — Le Sardine nascono proprio dalla denuncia di una evidente manipolazione della verità. Matteo Salvini era venuto a Bologna e aveva detto che al suo comizio in piazza Maggiore avevano assistito centomila persone. Ma una folla del genere in quello spazio non entra materialmente. Così abbiamo invitato i cittadini a riunirsi con noi in piazza Maggiore per mostrare come la verità dei corpi fisici possa smentire l’informazione alterata. E i partecipanti ci hanno detto: finalmente non ci sentiamo più soli. Ad aggregare intorno a noi tante persone non sono stati dunque specifici contenuti politici, ma fattori metapolitici: un ritrovarsi nell’empatia, nella relazione tra diversi, nel richiamo ai diritti umani. E il punto di partenza è stato il bisogno di ristabilire la verità.
MAURIZIO FERRERA — Permettetemi di citare un passo del Vangelo di Giovanni: «La verità vi farà liberi».
ANDREA GARREFFA — Sicuramente faremo tesoro delle idee che propone Ferrera sui «diritti aletici», relativi alla verità. Del resto abbiamo partecipato a diverse assemblee nelle scuole e una domanda ricorrente dei ragazzi è appunto: come facciamo a capire se una notizia è vera? C’è un grande disorientamento. Noi abbiamo dato voce a un bisogno di verità, abbiamo smascherato la bugia dei centomila in piazza Maggiore. Ma un’azione del genere non si può compiere tutti i giorni, quindi è enorme la responsabilità dei mezzi d’informazione, di chi lavora con le notizie. È una sfida tutt’altro che semplice, ma non può essere elusa, perché dove dilaga la menzogna si disgregano le basi stesse della democrazia.
MATTIA SANTORI — Il fatto è che la verità non fa notizia in un mercato dei media che vive di suggestioni. Forse a volte bisogna trovare compromessi, usare semplificazioni per arrivare alla verità. Mi pare però che in alcuni ambienti mediatici, per come è impostato il dibattito, sia davvero impossibile riportarla a galla. Quanto al web, serve soprattutto ad attirare l’attenzione: bisogna poi, una volta agganciato il pubblico, far seguire un approfondimento reale e un’informazione corretta. È un po’ quello che abbiamo fatto con lo slogan «dateci venti minuti della vostra vita per cambiare cinque anni del vostro futuro». Era un paradosso, come quando l’allenatore di basket, alla fine di ogni time-out, dice ai suoi giocatori che quello è il momento decisivo. Noi prima abbiamo chiesto venti minuti, poi sei ore il 19 gennaio, quindi abbiamo proposto contenuti più complessi. Tre restano i punti fermi: l’empatia tra i corpi nello spazio pubblico, che porta a scoprire la verità; la creatività e la gratuità, alternative al modello capitalistico, al consumismo e alle manipolazioni del potere; una politica che risponda al populismo valorizzando le regole democratiche, ma presentandosi in forme nuove per coinvolgere coloro che si sentono esclusi.
SILVIA AVALLONE — Io vorrei ripartire da Bologna, da un altro momento della campagna elettorale regionale in cui vi siete inseriti, generando l’esperienza della quale il libro offre una narrazione alternativa agli slogan della propaganda. Mi riferisco alla scena di Matteo Salvini che citofona a una famiglia di immigrati marocchini, accusandoli di essere spacciatori. Quel citofono è una metafora potente: usato in modo terrificante, avrebbe meritato di essere adoperato diversamente. Voglio dire che è necessario suonare al citofono delle periferie. Senza telecamere, senza social, ma con garbo e rispetto, bisogna andare ad ascoltare coloro che vivono nei luoghi di marginalità e dare loro la dovuta importanza. Sono cittadini sempre più abbandonati e quindi sempre meno disposti a essere solidali. Chi è privato di attenzione fa fatica ad ascoltare gente che sta peggio di lui. Invito tutti a leggere il libro La strada di Ann Petry. L’autrice è un’afroamericana che scrive negli anni Quaranta: racconta di una donna che vive in un quartiere degradato e va a raccontare la sua vita a un santone. Qui per la prima volta si sente guardata: nessuno in precedenza, compresi assistenti sociali e poliziotti, aveva mai prestato attenzione alla sua voce e alle sue esigenze. Perciò dico che il citofono va simbolicamente strappato a chi lo ha usato in modo strumentale. Bisogna ribaltare quell’approccio, andare in provincia, in periferia, nelle zone spopolate, come ha esortato a fare Papa Francesco. Sarebbe un’iniziativa davvero rivoluzionaria. Non possiamo chiedere alla politica di cambiare, se innanzitutto non siamo noi a farci carico dei problemi.
MAURIZIO FERRERA — Sono pienamente d’accordo. Un concetto importante a questo proposito è quello di riconoscimento. La donna che per la prima volta si sente guardata e ascoltata viene finalmente riconosciuta come persona, titolare di diritti. Ma lo sforzo di riconoscere l’altro è faticoso. Usare il citofono nel senso suggerito da Silvia Avallone significa anche scontrarsi con le paure delle persone emarginate e con la loro permeabilità alla propaganda ingannevole. Bisogna essere pronti ad ascoltare non solo i loro problemi, ma anche le percezioni false istillate dalle forze populiste.
ANDREA GARREFFA — Fin dal principio abbiamo individuato non tanto nella parola quanto nella narrazione una risorsa fondamentale, che plasma la realtà. Il gesto di suonare al citofono come ha fatto Salvini, che ha turbato tutti noi, è anch’esso espressione di un modo di narrare la società. Ma noi a quella mossa abbiamo deciso di opporre il silenzio. Oggi ci si sente sempre in dovere di ribattere alle provocazioni, ma a volte la risposta migliore, quella che fa più male a chi cerca la rissa, è ignorarlo. Dato che i social si basano sulla quantità delle interazioni, alimentare la polemica significava abboccare a un tranello. E le Sardine non abboccano. La vera risposta è andare nelle periferie e stimolare l’ascolto tra le persone, di cui c’è enorme bisogno. Già siamo andati nell’Appennino fuori Bologna, ma non a organizzare eventi di piazza, semmai a svolgere un’attività rispettosa del luogo. È stato emozionante a Castiglione dei Pepoli vedere trecento persone partire dal paese e camminare in silenzio nel bosco con le lacrime agli occhi. Può sembrare romanticismo, ma è stata un’esperienza forte di condivisione. Mi piace anche il concetto di riconoscimento, che non deve rivolgersi solo agli altri ma anche a conoscere noi stessi.
MAURIZIO FERRERA — Ora vorrei ragionare sulla fase successiva del vostro impegno, che vedete incentrata sulla partecipazione orizzontale dal basso. Ma la politica ha anche una dimensione verticale, quella della decisione. Se le persone hanno bisogni e aspirazioni, non basta ascoltarle, discutere con loro, occorre adottare delle soluzioni. Nel libro questa dimensione verticale è presente solo come cornice generale. Dite che le scelte pubbliche devono basarsi su una vasta rappresentanza e su un’analisi seria dei fatti, ma il problema è anche come selezionare le istanze giunte dal basso. Non tutte si possono soddisfare, alcune sono incompatibili tra loro. Che fare allora? Io penso che dobbiate scendere da una cornice valoriale elevata a linee strategiche più definite. Non vi chiedo che cosa pensate dell’Ilva o dell’Alitalia, ma di elaborare indicazioni sul futuro, su come correggere le iniquità, sul perché l’Italia non cresce e i giovani vanno all’estero. Potrebbe essere utile connettervi con altri soggetti giovanili (uno è il gruppo Tortuga, ma ce ne sono altri) che non si sono sporcati le mani, però riflettono sulle scelte della politica e propongono contenuti.
ANDREA GARREFFA — È senza dubbio un passaggio necessario. Vorrei però precisare che il libro si pone fuori da questa prospettiva verticale. La sua ambizione è documentare un percorso compiuto da noi quattro, con tutti i nostri limiti. Per fare un passo avanti bisogna ricorrere a competenze che non abbiamo. I ragazzi di Tortuga ci hanno cercati e li incontreremo. C’è interesse a conoscersi e a contaminare le rispettive esperienze.
MATTIA SANTORI — Quelli evocati da Ferrera sono i temi su cui ci stiamo arrovellando giorno e notte. Al momento abbiamo una struttura fondata molto più sulla fiducia e sul merito che sulla democrazia. Non è detto che sia un male, ma se ci chiedono da chi siamo stati scelti noi, e ancora di più da chi sono state scelte le persone che vanno in tv o scrivono testi per le Sardine, la risposta è che tutto è successo un po’ come veniva. Oggi abbiamo circa 120 referenti in Italia e una trentina nel resto d’Europa, la cui legittimazione deriva dal fatto che sono stati più svelti a lanciare un evento su Facebook.
MAURIZIO FERRERA — Però quello che avete fatto non è per nulla illegittimo. La comunità che sceglie i suoi rappresentanti deve essere innanzitutto costituita. E ciò nella storia di solito avviene attraverso persone come voi, che si alzano in piedi e lanciano un’iniziativa intorno alla quale convergono altri. A quel punto sorge una comunità che, come state facendo voi, si pone il problema di selezionare i suoi leader. Non c’è nulla di anomalo.
MATTIA SANTORI — A noi in realtà non interessa tanto la rappresentanza quanto il coinvolgimento. In ogni attività di gruppo, se non riesco a far sentire tutti partecipi, si perdono spinta, passione, propulsione. Ora per noi si pone il noto problema di come fa un movimento spontaneo a consolidarsi nel tempo. Molti di quei fenomeni finiscono per disperdersi, noi stiamo cercando di darci una forma. Abbiamo passato un mese di impasse decisionale, perché prima a decidere eravamo noi quattro, adesso tutto è più complicato. Anche sui contenuti ci sono visioni diverse: c’è chi vuole insistere su tre o quattro punti qualificanti e chi preferisce elaborare un progetto complessivo. Siamo in una fase embrionale e accettiamo suggerimenti.
GIULIA TRAPPOLONI — Per quanto riguarda i contenuti programmatici, una scelta giusta può essere cercarli nei territori che si sono attivati grazie alle Sardine, vedere se le energie che abbiamo messo in moto possono anche indicarci punti da elaborare e sostenere. Non si tratta solo di intercettare i bisogni delle periferie, come suggerisce la metafora del citofono. Bisogna attivare i territori, coinvolgerli in un processo decisionale.
MATTIA SANTORI — Di recente io e Andrea siamo andati a Scampia e a Taranto. Poi io ho visitato Certosa, quartiere di Genova sotto il ponte Morandi crollato nel 2018. Solo che siamo assediati dalla pressione mediatica e non riusciamo a raggiungere quei luoghi in punta di piedi come vorremmo. Le periferie, che in genere non vogliono essere definite tali, sono diffidenti in partenza: se arrivi con venti fotografi e operatori al seguito, la situazione non può che peggiorare.
SILVIA AVALLONE — C’è un altro punto importante su cui le Sardine si sono dimostrate sensibili. Mi riferisco alla lettura, anzi al libro: un oggetto oggi poco considerato e valorizzato, forse perché non alla moda. Per me aprire un volume è un gesto politico e civile. Equivale all’usare il citofono come strumento per mettersi in contatto con le persone, perché leggere un libro significa entrare nella vita, nei pensieri di un altro. È liberatorio incontrare gli altri, perché nessuno può essere felice nell’isolamento. In rete si rischia di conoscere solo gente che già la pensa come noi. La carica di frustrazione e di rabbia diffusa oggi nasce anche da questa condizione, mentre sarebbe fondamentale imparare a non avere paura di chi è diverso. E i libri aiutano perché sono l’inizio dell’incontro, consentono di affrontare meglio la fatica necessaria e salutare di metterci nei panni degli altri. Quindi vorrei insistere perché inseriate fra le priorità la rivalutazione del libro.
ANDREA GARREFFA — Su questo mettiamo la firma. L’istruzione e la lettura sono al centro della nostra attenzione, come tutto ciò che permette di superare la paura che ci fa percepire gli altri come una minaccia e non come una ricchezza.
MATTIA SANTORI — È importante la lettura, ma conta di più l’esperienza diretta. Noi stiamo constatando che nell’azione pratica una marea di convinzioni teoriche si disintegrano. Nella sinistra, a cui apparteniamo, ci sono infinite contraddizioni. Basta mettere quattro persone intorno a un tavolo e affiorano visioni diverse, difficili da conciliare. Domina l’individualismo, nessuno è disposto a rivedere le sue posizioni. Ma per convincere le persone devi metterti in gioco, dare l’esempio. Tra Gino Strada e Graziano Delrio (tanto per fare un nome) ti fidi di più del primo, perché è andato di persona ad affrontare i problemi di cui parla.
MAURIZIO FERRERA — Però Strada è credibile sui problemi che conosce. Non lo metterei a decidere su questioni di finanza internazionale.
MATTIA SANTORI — Ciascuno ha le sue competenze. Però lo scopo delle Sardine è unire storie diversissime, i comunisti convinti e gli iscritti al Pd, che si ritrovano in un contesto nuovo, sgombrato dai preconcetti, segnato dalla pratica concreta e destrutturato rispetto alle esperienze tradizionali.
ANDREA GARREFFA — Conoscere l’altro da noi è una fatica e non è di moda, ma vediamo crescere la voglia di farlo.
GIULIA TRAPPOLONI — Lo abbiamo visto con l’iniziativa «Sardina ospita Sardina», quando i nostri dell’Emilia-Romagna hanno aperto le porte a ragazzi provenienti da tutta Italia per la manifestazione del 19 gennaio. Quanto al problema culturale, il cambiamento di linguaggio non può che partire dalle scuole.
ANDREA GARREFFA — E qui torna il discorso sul potere dell’esempio. Noi lo abbiamo dato: narrando una storia, riempiendo le piazze, stimolando la partecipazione. Senza quelle azioni concrete non saremmo qui.