BARCELLONA – Sono passati 40 giorni dall’arrivo in Spagna della squadra di calcio della città più tristemente famosa del pianeta. Una particolarissima quarantena che José González, tecnico andaluso del Wuhan Zall Fc, ha vissuto accanto ai suoi ragazzi a migliaia di chilometri di distanza dalle loro famiglie che vivono ancora barricate in casa: «Cominciamo a vedere la luce alla fine del tunnel». Il 29 gennaio, dopo essere stati sorpresi nel ritiro di Guangzhou dalla dichiarazione di quarantena della città di Wuhan, il club cinese arrivava a Sotogrande, in provincia di Cadice, con l’intenzione di rimanervi un paio di settimane. Ne sono passate sei: «La paura può indurre l’essere umano a guardarti sotto una luce diversa. I primi giorni eravamo considerati una minaccia e per questo abbiamo chiesto ai nostri ragazzi di indossare sempre la maglia termica. Perché qualsiasi colpo di tosse sarebbe stato vissuto con allarmismo. Con il passare del tempo, però, la diffidenza si è trasformata in empatia e la verità è che ne avevamo proprio bisogno. L’invito al Clásico, poi, è stato un gesto straordinario, rivolto non solo a noi, ma a tutto il popolo cinese».
Cosa le trasmettono da Wuhan i dirigenti del club?
«Se tutto va bene rimarremo in Spagna fino a fine marzo. Ci hanno detto che il campionato dovrebbe iniziare a metà aprile. Sono ottimista perché quando leggi che il numero di contagi in una popolazione di un miliardo e mezzo è limitato a decine o poche centinaia di persone e che, allo stesso tempo, il numero dei curati è molto alto, non puoi non esserlo».
E rimanendo realisti?
«Beh, quando un Paese decide di paralizzarsi completamente con tutti i rischi che questo comporta, sia a livello economico che sociale, e, poi, vedi che le fabbriche riaprono, vuol dire che si sta tornando alla normalità».
Chi poteva immaginarlo?
«Quando arrivai in Cina si parlava di un virus sconosciuto che aveva colpito proprio Wuhan. Ma era un rumore di sottofondo, nulla più».
Ha mai pensato: “Chi me l’ha fatto fare”?
«Giammai. Non ho mai avuto la sensazione di essere in pericolo e non sono assolutamente pentito di aver accettato».
Come affronta la squadra l’incertezza sul giorno del ritorno a casa?
«Male, perché vivono con preoccupazione quello che sta succedendo alle loro famiglie».
Mai come in questo caso, l’allenatore è chiamato a fare da padre e psicologo. Come le riesce?
«Non so se ci riesco, ma ci sto provando. Provo a non parlare molto di quello che sta succedendo per evitare di ricordargli costantemente la situazione. Anche perché sono in continuo contatto con i propri familiari».
Come si prepara un allenamento in queste condizioni?
«Faccio di tutto per rendere le sessioni divertenti. Allo stesso tempo, stiamo giocando molte partite perché è quello che piace di più ai calciatori».
C’è stato un giorno in cui le hanno detto che non erano abbastanza sereni per allenarsi?
«La prima cosa che ho detto loro è che se un giorno non avevano voglia di allenarsi avrei rispettato la loro decisione. Fino a questo momento soltanto un giorno me lo ha chiesto un solo calciatore».
Uno dei suoi ragazzi ha perso la nonna a causa del coronavirus.
Come affrontano i calciatori le loro paure?
«Abbiamo vissuto dei momenti complicati, però ora stanno meglio e le notizie che ci arrivano invitano a pensare che tutto si risolverà presto».
E lei, come affronta le sue paure?
«Ho piena fiducia nel governo cinese, molta di più di quella che mi trasmettono i politici in Europa. In Cina se bisogna adottare misure necessarie, anche se restrittive, per il bene comune, lo fanno. Sono partito da lì il 23 gennaio e all’aeroporto mi hanno fatto due volte il controllo della temperatura.
E, invece, in Italia e in Spagna continua a entrare gente senza controllo alcuno».
In Italia si è deciso di chiudere le scuole e giocare a porte chiuse.
«Tutte le misure preventive devono essere accettate perché sono convinto che non vengano adottate alla leggera».
Ha affermato che è la situazione più difficile che ha vissuto. Cos’ha imparato?
«Davvero tanto. Sia come allenatore che persona. È una situazione che ti obbliga a soppesare ogni comportamento, ogni parola perché mi sono ritrovato a essere portavoce di persone che non hanno l’opportunità di comunicare, perché nessuno capisce la loro lingua. Mi è servito per imparare a stare vicino alle vittime, perché in molti casi notavo che sentivano di essere trattati in modo ingiusto».
Tante domande e nessun riferimento al campo. Di questo passo sentirà persino la mancanza delle polemiche arbitrali...
(Ride, ndr) «In effetti ho proprio voglia di parlare un po’ di calcio.
Ciononostante, capisco perfettamente l’interesse che sta suscitando la storia umana della squadra del Wuhan. All’inizio, quando il morale era basso ci siamo posti come obiettivo quello di provare a migliorare giorno dopo giorno. Se ci fossimo lasciati distrarre oltremodo dalla situazione non avremmo fatto il nostro dovere né di professionisti né di cittadini di Wuhan perché in questo momento non possiamo essere d’aiuto ma durante la stagione potremo farlo, Non possiamo deluderli».