il Giornale, 9 marzo 2020
Biografia di Ahmed Radhi Amaiesh Al-Salehi
Picchiato, torturato e sbattuto in un porcile a dormire con i maiali, così impara, quella bestia. È la storia di Ahmed Radhi Amaiesh Al-Salehi, stella e bomber del calcio iracheno degli anni ottanta e novanta, ma non solo la sua, è quella di quel calcio sotto la tirannia di Uday Hussein, figlio del Leone di Babilonia Saddam. Per chi non ha mai avuto tempo di approfondire cosa sia successo da quelle parti, e non è una colpa, questa è una ricostruzione raffazzonata del calcio di quegli anni in Iraq con Uday nominato ministro dello Sport dal padre, carica precipitata fortunosamente nel 2003, quando il dispotico dittatore è stato catturato dagli americani e con lui crollato quel regno di nefandezze non solo nello sport. Raffazzonata in quanto è storicamente impossibile ricostruire ciò che sia accaduto realmente agli atleti iracheni. Le loro dichiarazioni durante il regime di Saddam sono inesorabilmente bugiarde, dettate dal terrore di non compromettere la propria incolumità e quella dei familiari, anche per chi era riuscito a fuggire all’estero in quanto i servizi segreti di Saddam avevano ampi margini di manovra anche fuori dal Paese, soprattutto in America.
Storie incredibili da credere, tanto da apparire esagerate o frutto di allucinanti ricostruzioni peraltro rilasciate sempre nell’anonimato più completo. Qualcuna però sotto gli occhi del mondo intero quando Sabah Mirza, in un primo tempo guida del calcio iracheno sotto Saddam Hussein appena salito al potere, aggredisce l’arbitro George Joseph di Iraq-Kuwait valida per le qualificazioni alle Olimpiadi di Mosca. La notte stessa Mirza accompagnato dal dirigente Marouf Khadir irrompe nella camera d’albergo di Baghdad dell’arbitro, lo picchia, lo minaccia con un revolver e lo deruba di tutto quanto aveva nella stanza. George Joseph lascia la città con una mandibola fratturata e senza un quattrino in tasca, con la Fifa che volta le spalle e si limita ad una multa di 100mila franchi svizzeri alla federazione irachena.
Le verità, solo alcune, escono alla caduta del satrapo. Latif Yahia è soldato integerrimo e più che affidabile che Uday sceglie come uomo ombra e portavoce a cui consegnare i suoi ordini. Yahia sapeva che ogni più insignificante gesto poteva portarlo alla morte certa se avesse solo ventilato qualcosa su quanto accadeva realmente. Taceva e in cambio riceveva il permesso di vivere. Solo alla caduta di Uday esce allo scoperto, racconta e rivela con ricostruzioni circostanziate quegli anni, e dell’ex ministro dello Sport dice: un alcolizzato e accanito stupratore, uno oltre il male, l’incarnazione del demonio. Un sadico assassino che spesso torturava personalmente i giocatori e utilizzava la sua carica come copertura per le sue schifose attività. Nel palazzo c’erano saloni colmi di sigarette, whisky e Ferrari che aveva depredato in Kuwait. Nessuno poteva essere amato o celebrato più di lui in Iraq, ne soffriva la presenza, lo ammazzava.
E Ahmed Radhi è uno di quelli che rischia grosso, è il calciatore più venerato, idolo dei tifosi. La propaganda di Uday è grossolana ma perforante, dopo tre giorni e tre notti nel letamaio con le bestie, libera Radhi e riscuote finti consensi smisurati fra gli iracheni. In realtà teme che dopo le torture e l’immersione nel letame, le ferite di Radhi possano infettare le vacche frisone importate dall’Olanda a cui tiene molto più di tutto il resto, Radhi compreso. Con lui è stato chiaro, o giochi nella mia squadra o non giochi. Appena raggiunta la carica di capo supremo di tutto lo sport iracheno, Uday fonda l’Al Rasheed e con metodi molto persuasivi costringe i migliori calciatori iracheni a giocare nella sua squadra che naturalmente vince sempre, si aggiudica tutto, campionati, coppe, trofei.
Ma Radhi non accetta di entrare a farne parte. Almeno inizialmente, fin quando una notte viene prelevato da un commando, picchiato e minacciato, neppure in segreto ma davanti a tutti per educare il resto dei potenziali disobbedienti. I metodi sono noti, Uday concede sempre una alternativa, se fai quello che ti dico e lo fai bene, soldi, automobili, donne, altrimenti falaka, frustate con una canna sulle piante dei piedi e lancio nel letame finché non capisci. Nel Paese, che vive di calcio come tutti i Paesi del mondo, i metodi di Uday non sono poi così invisi, in fondo se nell’Al Rasheed giocano i migliori assi dell’Iraq è un bene per la Nazionale che infatti si qualifica per Messico ’86, con Radhi stella indiscussa della selezione. La qualificazione non è stata una passeggiata, l’Iraq elimina Giordania, Qatar, Emirati Arabi e Siria alternando sei diversi commissari tecnici fra iracheni e brasiliani, fra cui Edu fratello di Arthur Coimbra Zico, che Uday fa fuori a ripetizione ad ogni più insignificante episodio a lui sgradito. Sufficiente non riconoscergli i meriti dopo una vittoria.
Ma in Messico è vita dura nonostante le innocue relazioni dei vari ispettori Fifa e Cio che si presentano in Iraq per raccogliere informazioni e testimonianze di quanto stia accadendo a fronte di centinaia di segnalazioni di truffe e corruzione nel campionato. Del resto nessuno parla o ammette, unica possibilità per sfuggire alle torture. L’esordio è a Toluca contro il Paraguay, poi Belgio e Messico, tre sconfitte, la nazionale irachena non è male, diversi elementi sono di ottimo livello ma non si è mai allenata in altura, inevitabile soffrirla. Gioca tre gare più che dignitose sebbene i suoi dirigenti non si lascino sfuggire l’occasione per mostrare tutta la loro aggressiva supponenza. A fine gara contro il Belgio, il dirigente Shaker Mahamoud entra sul terreno di gioco e sputa in faccia all’arbitro. Ma l’episodio più clamoroso avviene nella partita di esordio contro il Paraguay. L’Iraq è sotto di un gol, siamo allo scadere del primo tempo, angolo, Rahid salta più in alto di tutti e pareggia, ma contemporaneamente il direttore di gara delle Mauritius, Pikon Anong, fischia l’intervallo, gol annullato. Per qualcuno è la prova provata dell’ostracismo del calcio mondiale verso l’Iraq, la nazionale torna a casa e scatena la sadica follia di Uday.
Allenamenti con un pallone di cemento, rasatura dei capelli e delle sopracciglia dei calciatori, considerate le più umilianti. Per Rahid che ha segnato l’unico gol iracheno contro il Belgio ma non si è sbrigato a saltare e colpire di testa contro il Paraguay, quindici ore senza sosta davanti a un muro a calciargli contro il pallone. E, paradosso, avendo evitato il resto delle punizioni, Rahid viene considerato un pupillo di Uday, un suo protetto. Paga le conseguenze anche la selezione giovanile che Uday imprigiona in una delle sue tenute fuori Baghdad e libera successivamente dopo diversi casi di colera fra i ragazzi costretti a vivere 24 ore su 24 con gli animali. Alle sue punizioni nessuno poteva sfuggire, dirigenti, arbitri, allenatori, calciatori, giornalisti. Tutti suoi personalissimi prigionieri.
Per chi, dopo questa allucinante lettura, avvertisse l’esigenza di conoscere meglio quegli anni, il coraggioso giornalista inglese Simon Freeman ha scritto Baghdad football club, la tragedia del calcio in Iraq. Un’indagine completa e dettagliata, raccolta in Iraq e in giro per il mondo, sulle follie di Uday che inchiodava al muro per le orecchie gli atleti che non vincevano e poi maciullava loro i genitali.
Ma anche Rahid ha pagato caro quegli anni, gli è stato impedito di avere una vita da genio del calcio come meritava e portare la sua arte nel mondo quando gli è stato proibito di firmare per il Nacional di Montevideo pronto a garantirgli un contratto, obbligato da Uday a restare all’Al-Rasheed dove gioca per cinque stagioni per poi tornare allo Al Zawraa dove aveva iniziato nel 1982. Eppure quando nel 1988 viene istituito per la prima volta il premio al miglior giocatore asiatico il titolo è suo, unico giocatore iracheno a fregiarsi di questo trofeo, e unico giocatore iracheno ad aver segnato un gol nella fase finale di un mondiale, 42 reti in 73 presenze con la sua nazionale in 14 anni. Rahid si è ritirato nel 1999 all’età di 35 anni e tutt’ora è considerato un eroe del calcio iracheno che durante quegli anni ha resistito ed è sopravvissuto alle schifose vergogne di quel delinquente di Uday Saddam.