il venerdì, 17 gennaio 2020
Su "I miserabili" di Ladj Ly
CANNES. Parigi brucia. E non perché dal novembre 2018 sono apparsi i gilet gialli con le loro rivendicazioni. Almeno dal 2005, dopo le rivolte nei sobborghi di Clichy e Montfermeil, le banlieue sono percorse da un sentimento di irrequietezza che sembra sul punto di esplodere. È questa la tesi di I miserabili, film d’esordio del regista francese di origini maliane Ladj Ly, che ha vinto il Premio della Giuria al festival di Cannes.
"Questo film" racconta "è un grido d’allarme, perché dopo quegli eventi c’è stata un po’ di attenzione per le periferie, ma molte cose devono ancora cambiare: i giovani che vivono lì sono il futuro della Francia, ma l’offerta scolastica e culturale è disastrosa. Senza contare le continue violenze della polizia. Non a caso il titolo richiama il romanzo di Victor Hugo, che aveva ambientato il suo libro anche a Montfermeil: sono passati 200 anni da quella narrazione ma questi sono luoghi abitati ancora da miserabili".
Le anime della polizia
Al di là della dichiarazione politica, la pellicola sui nostri schermi dal 12 marzo, è un thriller urbano che tiene con il fiato sospeso e proietta lo spettatore in una vicenda piena di implicazioni morali. Stéphane (Damien Bonnard) è uno sbirro taciturno e ligio alle regole che, arrivato a Montfermeil dalla sonnolenta Normandia, capisce subito come il suo lavoro non sarà più semplice. Il capo della sua squadra Chris (Alex Manenti) è un tizio carismatico capace di trasformarsi in un attimo in un rivoltante razzista, mentre il nero Gwada (Djebril Zonga) mitiga le brutte abitudini apprese nelle infernali ronde alla ricerca di criminali con un po’ di solidarietà per i cittadini che hanno origini simili alle sue.
Attraversato da sciami di ragazzini che passano la giornata in strada, il quartiere è in mano a un boss africano che si fa chiamare Sindaco e gestisce la microcriminalità, avversato dai fratelli musulmani desiderosi di imporre la loro visione religiosa sui più giovani. Quando un teenager ruba un cucciolo di leone dal circo degli "zingari", il loro spietato capo medita vendetta, e per evitare uno scontro con il Sindaco, i tre poliziotti cercano di acciuffare il ladro, finché nel mezzo di una rivolta Gwada non gli spara in faccia con un proiettile di gomma. Ma la scena viene ripresa dal drone di un ragazzino e così il problema di Alex e Gwada diventa rintracciarlo per evitare che il fatto diventi di dominio pubblico, mentre Stephane cerca di fare la cosa giusta in un’escalation di adrenalina e violenza.
Il dialogo e il manganello
"Tutto ciò che si vede nel film è ispirato a fatti che ho visto di persona o che mi sono stati raccontatidirettamente da amici". Il ragazzino con il drone, interpretato nel film dal figlio del regista, è in realtà ispirato allo stesso Ladj Ly: "Sono cresciuto anche io a Montfermeil e ci vivo ancora. Uso la telecamera digitale da quando avevo 16 anni e per molto tempo ho documentato la vita nel quartiere. Poi 10 anni fa mi è capitato di riprendere un abuso compiuto dalla polizia e ho deciso di pubblicarlo in rete. La conseguenza è che alcuni agenti sono stati sospesi". Questo è proprio ciò che Chris e Gwada vogliono evitare quando danno la caccia al proprietario del drone, mentre Stéphane tenta di far prevalere il buon senso e si ritrova coinvolto in una lotta in cui tutti, i piedipiatti, i criminali, i fratelli musulmani e gli "zingari", vogliono farsi giustizia da soli.
"I tre personaggi e il loro diverso approccio morale sono nati osservando a lungo gli agenti impegnati sul territorio" spiega Ladj Ly. "Da sempre funziona la dinamica del poliziotto buono e di quello cattivo, e spesso in queste squadre c’è qualche collega spaesato, perché è arrivato da poco e non capisce ancora le dinamiche del quartiere". Naturalmente i pregiudizi e l’incomunicabilità tra i membri delle forze dell’ordine sono la miccia che rischia di essere accesa a ogni equivoco, anche futile.
"Oggi la situazione è cambiata in peggio, perché quando ero bambino io avevamo sul territorio team della polizia di quartiere, con cui era possibile instaurare un dialogo. Quando sono state sostituite nel 2000 da più efficienti unità nazionali anticrimine, ogni forma di dialogo è scomparsa e i cittadini hanno conosciuto solamente il linguaggio del manganello. Non bisogna però dimenticarsi che tre quarti delle persone che vivono nelle banlieue, anche se hanno origini africane o di altri Paesi, sono cittadini francesi. E sono molto giovani".
L’illusione del calcio
Non a caso il regista apre la pellicola con il viaggio che decine di teenager compiono da Montfermeil verso il centro della città per assistere alla finale dei campionati del mondo di calcio del 2018 e celebrare poi tutti insieme la vittoria della Francia. "È un’idea che mi è venuta ripensando a quel giorno del 1998 in cui con i miei amici andammo allo Stade de France per vedere la nazionale trionfare ai Mondiali. Mi ricordo che cantavamo insieme e ci sentivamo tutti francesi" dice il regista. "Anche se poi abbiamo capito che nel nostro Paese ci sono diverse categorie di cittadini. Il presidente Macron aveva promesso un rivoluzionario piano per le periferie, ma poi si è tirato indietro all’ultimo, e per questo vorrei che vedesse il mio film. Non posso credere che la Francia, che è tra i Paesi più industrializzati al mondo, non riesca a risolvere il problema delle banlieue".