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 2020  marzo 08 Domenica calendario

Biografia di Vincenzo Cerami

Alcuni anni fa, in occasione del trigesimo della morte di Vincenzo Cerami, mi fu chiesto da «la Lettura» del «Corriere della Sera» di scriverne il ricordo; e io, che a Vincenzo dovevo tutto, e un mese prima ero scoppiato a piangere al telefono mentre dettavo il necrologio al «Messaggero» (proprio così, con la donna dall’altra parte del filo costretta a consolarmi, salvo rendersi conto d’improvviso di chi fosse il defunto – «Quel Cerami?» —, e commuoversi pure lei), mi misi a scrivere del fratello che avevo perso, del padre, dell’amico, dell’uomo – non del maestro. Anzi, dopo avere raccontato le circostanze del nostro primo incontro, in quel testo scrivevo così: «Da quell’incontro in avanti, oltre che un grande amico, Vincenzo Cerami è stato la figura più importante della mia formazione, umana e letteraria. Di quella letteraria qui non dirò; qui dirò solo di quella umana, del debito pazzesco che ho contratto con lui». Dopodiché, per l’appunto, elencavo tutte le cose che Vincenzo mi ha dato – tolte le quali, si può ben dire, parafrasando i versi di Milo De Angelis, non mi rimarrebbe quasi nulla. Vi era dunque in quello scritto un che di deliberato nell’evitare il mio debito letterario nei suoi confronti; e vi era, dunque – poiché faccio lo scrittore, e anche questo in larga parte lo devo a lui, e fare lo scrittore comporta degli obblighi morali —, l’implicita promessa di ritornare in futuro su questo punto. Bene, il momento è arrivato.

Innanzitutto, va salutata con grande soddisfazione l’iniziativa dell’editore Garzanti, che poi è il suo editore storico, di ripubblicare tutta la sua opera – l’unica maniera di scansare il buco nero che inghiotte gli scrittori negli anni successivi alla loro scomparsa. Per molto tempo, infatti, si è creduto che la luce emanata da un autore proseguisse autonomamente anche dopo la sua morte, e si aspettava troppo prima di ripubblicarlo, col risultato, in molti casi, di condannarlo a un oblio dal quale, poi, risultava sempre molto difficile recuperarlo. È successo con Ennio Flaiano, per esempio, o più recentemente, in misura un po’ diversa, con Alberto Moravia. Perché la vera vita degli autori è proprio la pubblicazione, e se i loro libri continuano a venire stampati e distribuiti in edizioni nuove, in nuove collane, in nuovi formati, con nuove prefazioni, la loro scomparsa diventa quasi irrilevante; riguarda solo le persone che essi avevano conosciuto, che avevano amato, dalle quali erano stati amati – ciò che, sei anni fa, mi fece piangere mentre dettavo il necrologio e un mese dopo mi spinse a scrivere il mio ricordo. Viceversa, se l’autore scomparso viene abbandonato ai libri pubblicati quando era in vita, ecco che piuttosto in fretta scompaiono anche loro, col risultato che l’autore muore due volte. Grazie a questa iniziativa di Garzanti, spero con tutto il cuore che a Vincenzo Cerami questa morte secunda verrà risparmiata.
È venuto dunque per me il momento di fare i conti con la scrittura del mio maestro, e di farlo tramite questo libro, Fattacci, che in effetti sembra essere il suo più baricentrico, se così si può dire, poiché contiene tutti gli elementi peculiari del suo magistero. Prima, però, va dato conto del debito che, a sua volta, Cerami aveva contratto col suo, di maestro – o comunque si voglia chiamarlo —, colui senza il quale lui non sarebbe diventato uno scrittore. Stiamo parlando di Pier Paolo Pasolini – e per rievocare il loro incontro non c’è di meglio che riportare la sua reminiscenza contenuta in Storia di altre storie. Il gioco della memoria, il libro scritto nel 2001 insieme a Francesco Guccini.
Siamo nei primi anni Cinquanta, a Ciampino, dove il padre Aurelio, maresciallo dell’aeronautica, dal palazzo di via Benedetto Varchi, all’Alberone, ha da poco trasferito la famiglia.

«Mi iscrissi a una piccola scuola media che si chiamava Francesco Petrarca, in via Pignatelli, una villettina che io mi ricordo Liberty ma sicuramente, nella realtà, deve essere stata una cosa orrenda. La memoria fa questi scherzi. Lì feci la prima media ed ero molto timido. Diventavo rosso, mi venivano i brufoli, mi mettevo all’ultimo banco, nascosto il più possibile. La mia era timidezza cronica. Mi chiamavano per interrogarmi e io non mi alzavo, facevo finta di non sentire. Dicevano: «Cerami, Cerami!» e io mi guardavo un po’ intorno, come a dire: «Ma chi cercano?»; e non mi alzavo. È passato un anno così. L’unica cosa un po’ simpatica era la ricreazione, che però durava un quarto d’ora. Si scendeva e si giocava a pallone nel giardinetto. E nel giardinetto c’era un professorino giovane che insegnava alla terza media, che giocava a pallone e tirava bene, era molto bravo. Sì, con lui era un momento di disinvoltura, si correva. Mi piacque molto, e una volta ho avuto addirittura il coraggio di avvicinarmi per chiedergli qualcosa, ma poi sono scappato. Fatto sta che in un anno non avevo risposto una volta, e fui bocciato. Allora tornai a fare la prima e quel professorino, che aveva ventotto, ventinove anni, divenne il mio insegnante di lettere. Per noi era il professor Pier Paolo Pasolini, ma era anche solo un ragazzo vestito come noi, povero come noi, con la camicia tutta sdrucita e la cravatta che era uno straccetto lacero».

Senza farla tanto lunga, un incontro del genere conteneva l’energia sufficiente per rivoluzionare la sua vita – non tanto la poca cosa vissuta negli undici anni precedenti, ma quella ancora da vivere, tutta intera, con le timidezze da vincere, le donne da amare e i mestieri da imparare. Perciò dovremo tornare a quel cortile e a quella cravatta lacera quando, fuori dalla biografia, ci troveremo davanti ad alcuni prodigi della sua scrittura, in questo stesso libro come negli altri. È in quel cortile, infatti, e nelle aule di quella scuola, grazie a quel «professorino» dalla camicia sdrucita, che Vincenzo Cerami, undicenne, con la benda sull’occhio in conseguenza della difterite, ha cominciato a costruire la propria visione del mondo – quella pietas che trasuda dalla sua opera e non a caso è una delle parole che gli ho sentito pronunciare più spesso.

Da lì in poi con Pasolini è sorto un sodalizio, anzi una vera e propria amicizia, che gli ha dato accesso a tutti gli strumenti necessari per diventare sé stesso, e che si è interrotta soltanto col fattaccio di Ostia, nel giorno esatto del suo trentacinquesimo compleanno; e di certo quell’amicizia, oltre che identità, gli ha dato occasioni e possibilità di entrare in contatto con gli intellettuali più importanti del suo tempo, con cui in seguito si è trovato a collaborare; ma prima di questo – che è, per l’appunto, biografia – è proprio grazie a quell’incontro nella scuola di Ciampino che si è creata la bolla che gli ha permesso di non essere mai borghese, mai, pur rivelandosi della borghesia, fin dal principio, e per tutto il resto della sua vita, un prodigioso narratore. Sul serio: ho conosciuto tanti scrittori, ormai, e poeti, e artisti, e intellettuali, in più di trent’anni, e veramente pochissimi erano o sono così non-borghesi come Vincenzo Cerami – per borghesi intendendo compromessi con la borghesia, corresponsabili in qualche pur vago modo delle unghiate con cui essa ha sbranato l’identità del nostro Paese, pian piano divorandosi tutte le altre classi sociali fino alla loro estinzione. Perché c’è sempre stata, e ci sarebbe anche adesso, la possibilità di misurare il grado di compromissione di ognuno di noi (noi borghesi) con l’attitudine predatoria che la borghesia, affermandosi, ha sviluppato nei confronti dell’etica, della religione, della tradizione, dell’ambiente, del gusto, delle diversità, dell’arte e della libertà stessa; e allora, be’, di questa scala Vincenzo Cerami dev’essere considerato il grado zero. C’è in tutta la sua opera questa misteriosa prossimità e al tempo stesso questa netta separatezza nei confronti della borghesia – ciò che io poco fa ho chiamato bolla: della borghesia egli ha sempre parlato, fin dal suo primo libro, fin dal suo titolo, Un borghese piccolo piccolo, e alle sue aberrazioni si è sempre dedicato, dando contemporaneamente l’impressione di esserle vicino ma anche estraneo e distante. Nessuno meglio di lui ha saputo demolire il sogno borghese del nostro dopoguerra senza mai nemmeno condannarlo; lo sguardo, il rigore, la pietà e naturalmente la lingua con cui l’ha ritratto, soprattutto nei suoi anfratti più bui, hanno fatto il lavoro – ed è per questo che la sua opera, pagina dopo pagina, risulta così liberatoria: ci restituisce per un magico momento una sensazione di innocenza che non ci meritiamo di certo, e che tuttavia nelle sue pagine riusciamo ugualmente ad assaporare.

Del resto, proprio parlando di innocenza occorre tornare in quel cortile della scuola media di Ciampino dei primi anni Cinquanta. Era innocente quel professore dalla camicia sdrucita? Era innocente la «gentarella anonima, e quindi pura» che lo circondava – e dalla quale provenivano i ragazzini affidati a lui? Era innocente quell’Italia? Erano innocenti almeno i ragazzini? Pasolini ha esaurientemente risposto a queste domande, in tante occasioni: no. Anzi, quella domanda l’ha superata, come spesso faceva, oltrepassando il significato stesso della parola in questione, ribaltandole addosso il suo contrario. Basti pensare alla Sequenza del fiore di carta, il cortometraggio con cui Pasolini partecipò, insieme a Lizzani, Bellocchio, Godard e Bertolucci, al film collettivo intitolato Amore e rabbia del 1969: Ninetto Davoli che saltella tra la gente per le strade di Roma, e danza, leggero, sorridente, innocente, ripetendo come in un mantra: «L’innocenza è una colpa, l’innocenza è una colpa». Ma, allo stesso tempo, sempre parlando di innocenza, non si può non soffermarsi sulle ultime poesie pubblicate da Cerami prima della sua morte, nella silloge intitolata Alla luce del sole — quei versi chiari, miti, definitivi, dove si arriva a sostenere che «niente di più innocente / c’è al mondo / che non sapere e aver saputo / niente». Ecco, tra questi due poli oscilla la pietas di Cerami nei confronti dei suoi personaggi, siano essi d’invenzione come nei romanzi o realmente esistiti come nelle ricostruzioni dei fatti di cronaca cui si è sempre dedicato.
La progenitura, infatti, dalla quale proviene questo libro è molto ricca, e dà conto dell’attenzione minuziosa, ma mai maniacale, che Cerami ha dedicato al crimine comune – quella devianza che oltrepassando con tanta naturalezza i confini della morale borghese ne denuncia l’inconsistenza. A partire dal 1988, infatti, ha tenuto sul Messaggero la rubrica «Fattacci di Roma», nella quale si è occupato del delitto Martirano (riguardo al quale ha anche scritto la sceneggiatura di un film televisivo), del delitto Menegazzo, del delitto Gruber, del caso Marino Vulcano, del delitto Casati, del caso Bebawi, della decapitata di Castelgandolfo, del delitto di via Vetulonia, del mostro di Nerola, del delitto di Christa Wanninger, del caso Lionello Egidi, del caso Graziosi, del caso Montesi, del caso Tirone, del caso Girolimoni e del giallo del vicedirettore di Rebibbia. Nel 1989, per un’altra rubrica, sempre del Messaggero, intitolata «I misteri di Roma», ha passato l’estate a scrivere di vari casi rimasti insoluti (per esempio il caso Rothschild, la morte della contessa Carmela Belli, la scomparsa del professor Caffè, quella di Emanuela Orlandi, il caso Tiffany ecc.). Infine, nell’estate del 1994, sotto il titolo di I gialli di Roma, ha pubblicato come supplementi del Messaggero quattro libretti dedicati ai quattro casi che si trovano nel volume qui riedito. Come si vede, dunque, il viaggio di Cerami nella sporcizia prodotta dall’Italia borghese del dopoguerra è stato lungo e laborioso, e Fattacci può esserne definito il distillato – o meglio, per utilizzare la giusta similitudine col linguaggio della chimica, il precipitato: dalla soluzione semiliquida delle rubriche sul giornale alla solidificazione in forma tutt’affatto letteraria, attraverso un nuovo ciclo di lavorazione. Il giornale infatti ha fornito a Cerami una ponderosa mole di documenti processuali – verbali di deposizione, trascrizioni di interrogatori, articoli di cronaca – riguardanti tutti i casi trattati giornalisticamente negli anni precedenti, ed è stato dopo avere esaminato tutti questi materiali che Cerami ha compiuto la scelta – solidificando, appunto, in forma letteraria i casi del canaro della Magliana, del nano imbalsamatore, del boia di Albenga e dei marchesi Casati, successivamente riuniti nel libro edito da Einaudi nel 1997.

In tutto questo lungo lavorio salta agli occhi l’esclusiva romanità del contesto, come se di certi obbrobri della cronaca nera Roma fosse da considerarsi la patria: il che può anche essere vero, almeno in parte, considerando l’urto sociale che la città ha subito nel dopoguerra con la sua definitiva trasformazione in metropoli. Ma una precedente e ovvia ragione di questo romacentrismo sta senza dubbio nella committenza, quel Messaggero che è stato per tutta la vita il suo giornale di riferimento, come lo è di quasi tutti i suoi concittadini («io non riesco a capire come faccia la gente a non leggere Il Messaggero», mi disse una volta, serio, Giorgio Montefoschi): e poiché di fattacci Roma ne produce a sufficienza, ai lettori del Messaggero viene naturale raccontare quelli. E tuttavia, leggendo le quattro novelle in cui Cerami ha trasformato i quattro casi prescelti, si comprende anche che la romanità del contesto era necessaria anche per un’altra ragione, questa invece proprio letteraria: nel processo di solidificazione che le storie hanno subito in occasione della loro uscita in volume, con la presenza discreta ma costante del narratore a tenere le fila del racconto, con i flash-back e i flash-forward e gli enigmi e le sorprese che si avvicendano, la lingua di Cerami si scioglie in un fluido viscoso che tiene legati insieme l’orrore e la quotidianità proprio grazie alla confidenza dell’autore con le geografie descritte: nulla sarebbe com’è, in questi quattro racconti, se la lingua non potesse rifornirsi di pietas in quello che Cerami definisce il «limaccio della vita reale» del quale egli stesso fa parte, costituito anche dai posti e dai loro nomi: la Magliana, Castro Pretorio, Stazione Termini, il Portuense, l’Esquilino, o nelle puntate fuori città a Montefiascone, Ostia, Torvajanica – tutti accarezzati dalla voce di chi da quei posti viene e in quei posti ha pianto le proprie tragedie. Così, la lingua utilizzata da Cerami nella ricostruzione dei fattacci romani finisce per somigliare a quella riservata da Scerbanenco a quelli milanesi – non per stile ma, appunto come per Scerbanenco, per profonda consustanzialità con i luoghi, le luci, i paesaggi e i materiali descritti nel racconto. Cioè per il coinvolgimento, alla fin fine, dello scrittore e del suo dolore personale non solo con i soggetti ritratti ma soprattutto con il quadro che li contiene. E non si può non pensare, allora, al fattaccio che Cerami non ha mai messo nel proprio mazzo di narratore, malgrado si tratti del cold case più celebre e straziante che abbia riguardato Roma nel dopoguerra, e cioè l’omicidio del suo amato Pier Paolo: un ingombro che tuttavia si percepisce costantemente, sullo sfondo dei crimini che Cerami esplora con tanta compassione, così come lo si percepiva nel fondo del suo sguardo di uomo buono.

Poi, naturalmente, c’è il discorso sul male, sulla sua banalità, sulla sua minacciosa prossimità alla vita di ognuno di noi. Questi quattro «resoconti psicologici», come li ha definiti Cerami stesso, parlano tutti di uno stesso confine oltrepassato senza dover mai fare più di un passo: non in preda a un raptus, non nella perdita del controllo, ma, al contrario, deliberatamente, lucidamente, al termine di un lungo, languido percorso durante il quale vittime e carnefici sono stati complici nel giocarci, con quel confine, nell’ignorarlo o nel sottovalutarlo, in nome di una trasgressione patetica e, per l’appunto, perdutamente borghese, ottenuta combinando tra loro sempre gli stessi elementi: concupiscenza, plagio, sopraffazione, sadomasochismo – insomma, la declinazione novecentesca di ciò che sedici secoli prima sant’Agostino aveva chiamato «amore male indirizzato». In fondo a tutto, rancida e grigia, la materia-madre di tutte le sofferenze borghesi, la più comune, la più banale, la più incurabile: l’insoddisfazione. Stop. Mai niente di veramente straniero in queste vicende, neppure nei passaggi più violenti, niente di extraterritoriale – tutto sempre attufato nel perimetro angusto che tutti conosciamo, lavoro-vacanza, divertimento-noia, umiliazione-riscatto, dal quale i personaggi non riescono a uscire nemmeno nell’atto di compiere i gesti più estremi. E sono gli oggetti, sempre, oltre che i luoghi, a inchiodarli alla propria tragica banalità: cocaina, motociclette, biancheria intima, antidepressivi... Ecco, come se di quella banalità esistesse un dio, e come se lui non intendesse bestemmiarlo, Cerami spolvera e lucida tutti i dettagli che straripano dalle storiacce che va ricostruendo, in questo simile agli skaters che accarezzano con le loro evoluzioni i luoghi più squallidi e ordinari del mondo occidentale, rivestendoli in quel modo di un’inattesa, madornale bellezza. È quello che fa Cerami nel racconto delle cose che tutti fanno, e vedono, e sentono ogni giorno, col male appollaiato sulla spalla senza nemmeno accorgersene, così come di quelle che a un certo punto fanno soltanto i protagonisti di queste storie: conficcare un coltello, tirare un grilletto, stringere un foulard attorno a un collo. Cioè, questi fattacci Cerami li fa belli. Ma non di una bellezza artificiale, estetizzante, muscolare, imposta col talento: li fa belli della loro bellezza, quella che riesce a vedere soltanto uno sguardo veramente consapevole e compassionevole. Non c’è forse bellezza in quella scuola di Ciampino così come la descrive Cerami, in quelle ricreazioni nel cortile, in quella cravatta spelacchiata che svolazza al collo di Pasolini? Eppure potete scommettere che di bello lì, e lì attorno, per chilometri e chilometri, non c’era nulla. E c’è forse qualcosa di bello in un giovanotto che impicca un nano al suo stesso foulard? Eppure, quando davanti a quell’atto passa lo sguardo di Cerami, diventa questo: «D’improvviso il giovane vide l’ometto irrigidire i pugni e bloccarsi nell’immobilità. Dai piedi caddero a terra le due ciabattine».
Grazie, Vincenzo mio.