La Lettura, 8 marzo 2020
L’arte di ritradurre
È noto che le parole – nel passaggio da una lingua all’altra – non sono sovrapponibili. Questo vale per le lingue «viventi» e, com’è ovvio, ancora più chiaramente per le lingue antiche, non più parlate. Le ragioni di ciò sono molte, la più forte è probabilmente l’evolversi della morale e dei rapporti sociali. Il termine greco poneròs è, sotto questo riguardo, emblematico, insieme col suo «gemello»-opposto chrestòs. Noi di norma, sbrigativamente, li traduciamo con «cattivo» e «buono». Ciò facendo perdiamo altri valori concomitanti che i parlanti percepivano immediatamente. Così in poneròs c’è ponos (lavoro, fatica). Ne deriva che il termine sta a indicare chi è costretto (dalla povertà) a lavorare: dunque – in una società basata sulla schiavitù e dove il lavoro appare come «condanna» – il termine significa, al tempo stesso, «operaio», «povero» e «cattivo» (moralmente scadente e dunque pericoloso). In francese l’equivalente sarebbe la canaille, che però non contiene necessariamente la nozione di «lavoratore», anzi equivale piuttosto al deprecato (da Friedrich Engels) Lumpenproletariat. Ma per un aristocratico tipo ancien régime anche il lavoratore è, ipso facto, canaille (gli operai parigini, rivoltosi nel giugno 1848, erano – per chi sparava loro addosso — la canaille). In una prospettiva cristiano-misericordiosa sarebbero invece les misérables (che però sconfinano – anche nel celebre romanzo di Victor Hugo – nei Lumpen).
L’opposto di poneròs, s’è detto, è chrestòs: «buoni» sono anche «la gente per bene, i ricchi». L’opuscolo ateniese (fine V secolo a.C.) in cui quella polarità ritorna in modo quasi ossessivo è la cosiddetta Costituzione degli Ateniesi (Athenaion Politeia: meglio sarebbe tradurre Politeia «regime politico»). Politeia meriterebbe analoga indagine lessicale; come demokratia, che, per i prosatori ateniesi di orientamento oligarchico, significa «violenza da parte del popolo». I chrestoi sono l’equivalente dei boni cives cari al conservatorismo romano. Il latino ci mette sotto gli occhi il fenomeno estremo: quello per cui alcune parole in una lingua non esistono perché non c’è «la cosa». Democratia non esiste infatti nel latino né in epoca repubblicana né durante il principato. Per dire «democrazia» (la deprecata costumanza ateniese e più largamente greca) dicevano nimia libertas («eccesso di libertà»).
Traducimi o diva, l’ira funesta del Pelìde Achille, i classici antichi e quelli moderni, i bestseller e le opere che prima leggevano solo gli studiosi. Molti libri rivivono per i lettori di oggi grazie alle continue ritraduzioni. Anche a costo di deludere chi a una certa voce è affezionato, come è successo con Il s ignore degli anelli, passato dalla storica, musicale traduzione di Vittoria Alliata a quella più filologica di Ottavio Fatica, sempre per Bompiani. Adeguamento alle mutate sensibilità, necessità di una maggiore accessibilità o semplici operazioni commerciali considerato che i classici sono la cassaforte degli editori, sopratutto in momenti di crisi? «La Lettura» è partita da alcune uscite recenti per analizzare il fenomeno.
Solo per fare alcuni esempi, oggi in libreria si può trovare la nuova versione con cui Emanuela Guercetti ha rinnovato il capolavoro di Tolstoj, Guerra e pace, per Einaudi. O i Dieci piccoli indiani di Agatha Christie per i Gialli Mondadori nella voce di Lorenzo Flabbi, l’editore-traduttore dell’Orma (tra l’altro ha ridato vita alla prosa di Annie Ernaux), che ha sostituito agli oggi scomodi «negretti» (Ten little niggers) della filastrocca, dieci piccoli «soldati», in linea con la versione inglese attualmente di riferimento. Più politicamente corretta anche la versione integrale di Via col vento, ritradotto da Annamaria Biavasco e Valentina Guani per Neri Pozza, mentre un ex preside di Cavaglio d’Agogna, paesino nei pressi di Novara, Claudio Groppetti, s’è lanciato in un’operazione folle e coraggiosa: una «versione nella lingua italiana di oggi» della cinquecentesca Storia d’Italia di Francesco Guicciardini per Interlinea. «La Lettura» lo ha invitato a discuterne insieme ad Annamaria Biavasco, Valentina Guani e a Maria Grazia Ciani, grecista, traduttrice di Omero, direttrice di due collane per Marsilio.
Groppetti è un vivace ottantaseienne che si è appassionato a Guicciardini seguendo un corso di Mario Fubini all’università di Milano. «Quando ero al liceo, come tutti, ero schierato con Machiavelli perché Guicciardini mi sembrava troppo distaccato. In realtà Machiavelli è stato solo un segretario della Repubblica fiorentina, Guicciardini uno degli uomini politici più importanti del suo tempo. Ministro degli Esteri di due papi, ha governato due grandi città. Il corso di Fubini mi ha conquistato e da allora ho sempre continuato a leggerlo nei momenti liberi». Appena in pensione, Groppetti si è dedicato ai 221 testi dei Ricordi: «In genere vengono considerati un’operetta politica, ma ciò che rende grande lo scrittore, secondo me, sono i 133 ricordi che riguardano la psicologia dell’uomo. È talmente profondo che vale per oggi e per il futuro, mentre, naturalmente, la politica è legata alle vicende dell’epoca».
Professore, quando ha cominciato a tradurre la «Storia d’Italia» nella lingua di oggi?
CLAUDIO GROPPETTI — Nel 2010. Ci ho lavorato 7 anni. Sulla scrivania ho un foglietto che dice: terminato di tradurre il 29 novembre 2017 alle ore 18. Ho scritto tutto a mano con due penne stilografiche: migliaia e migliaia di fogli. Poi bisognava trascriverli al computer. Meno male che mi ha aiutato mio nipote Jacopo (che è accanto a lui, ndr). Altri 3 anni per batterlo al computer, leggerlo, rileggerlo e trasferirlo su 20 cd.
Perché si ritraduce un testo?
MARIA GRAZIA CIANI — Quello dei classici è un caso a parte. Fino a un certo periodo ci si accontentava di traduzioni di prima mano, anche di grandi poeti del tempo. Però mentre la lingua morta rimane sempre la stessa, la lingua italiana ha subito, soprattutto negli ultimi tempi, l’evoluzione che tutti conosciamo e quindi certe traduzioni, soprattutto di seconda mano, cioè parola per parola, quasi una parafrasi, sono diventate incomprensibili, sia nello stile sia nel lessico. Di qui la necessità assoluta, per far capire il testo antico, di un italiano più moderno. Celebre il lamento di Alberto Savinio, che pure era in parte greco: vorrei proprio leggere la settima lettera di Platone per capire che cosa vuole dire. Sono molto grata al professor Groppetti perché per la prima volta ho potuto leggere la Storia d’Italia gustandola. Dieci anni di lavoro sono tanti, ma ne valeva la pena.
VALENTINA GUANI — Bisogna prendere atto del fatto che la lingua italiana si è evoluta molto. Nel caso di Via col vento la traduzione era fatta bene, ma antiquata. Il testo è stato scritto nel 1936 ed è ambientato durante la guerra di secessione, quindi 1860. Eppure è ancora oggi leggibile in maniera scorrevole, mentre la traduzione in italiano lo è meno. Forse la lingua è cambiata di più, a cominciare dai pronomi personali che in inglese sono rimasti he, she. Invece quando ci si trova davanti a «ella» o «egli» si rimane spiazzati, soprattutto perché si tratta anche di un romanzo di evasione.
CLAUDIO GROPPETTI — Per capire perché ho sentito la necessità di «tradurre» Guicciardini bisogna tenere conto di com’era il testo originale. Intanto, non è stato scritto da lui, ma dal suo segretario, Orazio da Fermo, un uomo con una testa che oggi potrebbe competere con un computer. Guicciardini camminava avanti e indietro nello studio e dettava, il segretario scriveva con la penna d’oca. Il testo originale non ha né capitoli né paragrafi. Quando Guicciardini non aveva più fiato metteva un punto, magari si trattava di un periodo di una pagina e mezza con una serie di dipendenti, poi una breve frase principale e un’altra serie di dipendenti. Ci sono 100-150 pagine di pergamena che non vanno mai a capo. Si sa che è l’unica opera che voleva pubblicare. Tutte le altre, comprese i Ricordi, le scriveva per sé, per guidare la sua attività politica. Soltanto dopo la sua morte la Storia è stata divisa in 20 libri. Fu pubblicata, revisionata e tagliata degli ultimi quattro, scritti quando Guicciardini stava già male, nel 1561, dal nipote Agnolo che gli diede il titolo. Fino all’inizio dell’Ottocento è stata pubblicata in quel modo. Finalmente, nel 1819, un grande studioso, Giovanni Rosini, ha deciso di dividere ogni libro in capitoli, mettendo all’inizio di ognuno un sommario e rendendola più leggibile. Nel Novecento è arrivata la prima grande edizione critica a cura di Alessandro Gherardi.
In che cosa consiste quindi la sua traduzione dall’italiano all’italiano?
CLAUDIO GROPPETTI — Anche se i critici mi salteranno addosso, ho spezzato i periodi più lunghi e ho diviso tutto in paragrafi, rendendoli più leggibili. Sono intervenuto sulla punteggiatura che, nonostante i miglioramenti introdotti dai curatori, era ancora antiquata e in certi casi sbagliata. Ho cambiato parole che nel Cinquecento erano comprensibili e oggi non più.
MARIA GRAZIA CIANI — Questo succede molto spesso in altre lingue, penso all’inglese di Geoffrey Chaucer. Io mi illudo a volte di leggere in inglese arcaico e invece poi mi accorgo che è stato ritradotto. Forse in italiano succede meno. Ritradurre classici sta diventando una necessità. Leggevo sul “Corriere della Sera” un articolo di Gian Antonio Stella sul saggio di Massimo Arcangeli, Senza parole, pubblicato dal Saggiatore. Inizia con la folle collera di Vittorio Alfieri – che alle collere era molto portato – nel leggere l’inizio del Galateo di Giovanni Della Casa che cominciava con conciossiacosaché. Lui, che pure scriveva in un italiano oggi antiquato, fu preso da una tale rabbia che voleva scagliare il libro dalla finestra. Insomma, è una necessità che risale a tempi molto remoti e che adesso è diventata inderogabile.
ANNAMARIA BIAVASCO — Come scrive in Falsi d’autore Daniele Petruccioli, nostro collega, è bello sentire una melodia in molte interpretazioni. Allora anche un libro, i classici soprattutto, l’Iliade, l’Odissea, ma anche Via col vento, possono cambiare moltissimo a seconda del traduttore. La nostra è una voce diversa da quella del 1937 di Ada Salvatore ed Enrico Piceni. Lo stesso vale per Il signore degli anelli: sono due interpretazioni diverse. È sbagliato farsi la guerra. Del monologo di Amleto è sorprendente vedere come ogni attore tiri fuori qualcosa di differente. La traduzione è per forza un’approssimazione, un’interpretazione, una lettura: averne di più arricchisce. Ed è importantissimo per noi che facciamo questo lavoro perché finalmente la gente si accorge che non siamo semplicemente traspositori di parole.
MARIA GRAZIA CIANI — Sono d’accordissimo. Io mi sono battuta per anni. Come direttrice di collane se le traduzioni erano illeggibili venivano rifatte.
Lei ha tradotto in prosa l’«Iliade» e l’«Odissea». L’«Iliade» ha anche vinto il premio Mondello 1991...
MARIA GRAZIA CIANI — Per l’Odissea sono abbastanza contenta perché è un ritmo particolare, un esametro più sciolto, ma per l’Iliade no. L’Odissea prelude al romanzo di avventura e quindi in un certo senso è più facile; l’Iliade, anche da studi che abbiamo fatto con Elisa Aezzù che è stata autrice del commento, è più marziale nel contenuto e anche nell’esametro. La storia in sé è coerente, ma frammentata, con molte inserzioni di un materiale più vasto che non riguarda soltanto Achille ma anche altri eroi. Tutto questo rende certi passi incomprensibili.
Sente di avere perso qualcosa?
MARIA GRAZIA CIANI — Io non ho quello che in musica si chiama l’orecchio assoluto e non sono poeta. Non riesco a tradurre verso per verso. Ho scelto la prosa basandomi sull’idea del ritmo poetico. Quello che forse manca alla mia Iliade è il passo eroico, guerriero. E lì non c’è niente da fare. Mancano quegli enjambement, quelle pause che hanno un valore straordinario e che si colgono soltanto se si traduce poeticamente. Se io devo citare in un articolo qualche passo dell’Iliade la ritraduco in versi sciolti, non vado a prendere la mia».
L’obiettivo della traduzione in prosa qual era? Rivolgersi a un pubblico più ampio?
MARIA GRAZIA CIANI — Forse ho precorso i tempi: adesso la versione in prosa viene apprezzata e riconosciuta, viene letta anche dai giovani liceali. Il Monti resta il Monti: Cantami o diva lo conoscono tutti, ma quando si va avanti, quando si arriva alle divine quadrella, gli studenti delle superiori, ma anche dell’università, restano con gli occhi sbarrati. È sempre una grande traduzione per gli italianisti, ma per tutti gli altri è dura. Una volta si diceva che i classici andrebbero ritradotti ogni vent’anni, io dico anche ogni dieci.
CLAUDIO GROPPETTI — La cosa curiosa è che oggi Guicciardini è più noto nella cultura internazionale che in Italia, perché all’estero tutti lo leggono in una traduzione moderna. Inglesi, tedeschi, spagnoli... anche europei dell’Est. Da noi finora non era possibile.
Nel saggio di Arcangeli che Maria Grazia Ciani citava si mostra che molte persone non conoscono, o travisano, il significato preciso di alcune parole, come «abulico» o «sordido». Nella narrativa è quasi scomparso il passato remoto perché in inglese non c’è e nell’Italia settentrionale si usa poco. Insomma, il rischio di usare una lingua più comprensibile non è quello di appiattirla, di lasciare per strada qualcosa?
VALENTINA GUANI — Noi il passato remoto lo usiamo, anche in libri meno letterari di questi, di genere, in cui conta molto di più la trama, l’intreccio, dove a volte la voce del traduttore prevale su quella dell’autore. Nei dialoghi lo usiamo molto poco, è vero. Certo il rischio di impoverire la lingua c’è...
MARIA GRAZIA CIANI — Bisogna cercare di tenere sempre un tono elevato.
VALENTINA GUANI — Anche se non elevato, comunque vario, ricco.
ANNAMARIA BIAVASCO — In certi libri, come Via col vento, una piccola patina di passato ci sta. Per esempio noi abbiamo usato spesso «assai». Abbiamo posto attenzione a una lingua con un gusto più antico. Invece abbiamo snellito molte parole ed espressioni obiettivamente passate.
Per esempio?
ANNAMARIA BIAVASCO — «Vi era in quel volto qualcosa di cognito». Qui si può dire tranquillamente che la traduzione era sorpassata, che sfiorava Guicciardini. Non credo che la nostra scelta – «Le sembrò una faccia nota» – sia una banalizzazione, un abbassamento. D’altro canto la traduzione del 1937 letta oggi risente dell’autarchia linguistica imposta dal fascismo. I loro personaggi, per esempio, bevono acquavite. I nostri, brandy, come nell’originale. E abbiamo lasciato i nomi propri in inglese. Scarlett non diventa Rossella.
E la tensione narrativa?
CLAUDIO GROPPETTI — Io credo di essere riuscito a mantenerla perché Guicciardini trascina. Non è possibile farne a meno, si è talmente coinvolti che si vive dentro il testo e si finisce per ragionare e per sentire come l’autore. È straordinario il fatto che le 2 mila pagine della Storia d’Italia non trattino secoli di storia, ma poco più di 40 anni: dalla morte di Lorenzo il Magnifico, nel 1492, a quella di Clemente VII, nel 1534.
VALENTINA GUANI — Margaret Mitchell diceva che una buona trama regge sempre la riscrittura. Di Via col vento ci sono state due traduzioni in italiano, il sequel, il film. La vicenda è avvincente, costruita bene e quindi si riascolta volentieri. E questo credo valga anche per Guicciardini, per Omero, per altri...
MARIA GRAZIA CIANI — Tutta la teoria sulla traduzione, e i volumi sono ormai centinaia, non dà una regola perché ogni traduttore ha una sua personalità e si fa la sua regola. È sempre un contatto diretto, personale. C’è qualcosa che si perde e anche qualcosa che si acquista. Le due lingue possono anche dare e ricevere l’una dall’altra. A volte l’italiano restituisce meglio quello che l’altra lingua non rende con altrettanta forza. In altri casi è l’inverso. Ciò che si perde, piuttosto, è l’aura della lingua di partenza, non quella scena, quella parola in particolare, quel periodo. E questo non dipende dal traduttore. A me succede di leggere un libro in francese, poi la traduzione italiana e poi tornare al francese per recuperare quell’atmosfera che ho perso. Il testo originale mi restituisce un profumo diverso.
VALENTINA GUANI — Poi ci sono tutte quelle lingue che non possiamo nemmeno annusare perché non abbiamo nessun appiglio, non conosciamo assolutamente nulla e lì ci dobbiamo affidare soltanto alla traduzione. Noi possiamo confrontate l’inglese della Mitchell con il nostro italiano o l’italiano di Guicciardini con quello del professore.
ANNAMARIA BIAVASCO — Io credo che ogni traduzione perda più che guadagnare, anche perché esiste una sorta di codice deontologico per cui ci posso mettere qualcosa ma non più di tanto. Però è indispensabile: per capire certi giochi linguistici, certa ironia, ci vuole una capacità di comprensione della lingua molto alta. Quindi bisogna restituirla un po’ rimasticata.
CLAUDIO GROPPETTI — La mia situazione è diversa: chi traduce da un’altra lingua deve cambiare il 100% delle parole, io ho usato l’80% delle parole di Guicciardini. A volte ci sono frasi di una modernità straordinaria che non ho nemmeno toccato. In questo caso si guadagna tutto. È come immaginare una tela di secoli fa, diventata una crosta illeggibile e data in mano a restauratori che la fanno ritornare com’era allora.
Pensa che adesso anche un giovane possa appassionarsi a un testo come la «Storia d’Italia»?
CLAUDIO GROPPETTI — La Storia d’Italia a scuola è come un masso che tutti guardano da lontano o che aggirano. Eppure, se si entra dentro, è come trovarsi nel centro della D ivina commedia. Guicciardini ha una capacità di penetrazione psicologica straordinaria. Basta leggere le descrizione di papi come Leone X e Clemente VII che il pensatore conosceva da vicino. Non parliamo poi di Alessandro VI, il Borgia, che aveva sei figli quando è diventato papa e non ha fatto altro nella vita che curare i loro interessi.
MARIA GRAZIA CIANI — Io ho ripreso con molto piacere anche Via col vento. Insieme a La grande pioggia di Louis Bromfield è stato il primo libro che ho letto. Il film l’ho visto decine di volte. Nella vostra traduzione non solo le parti più emozionanti – l’incipit, l’assedio di Atlanta a cui la scrittrice dedica pagine mirabili senza alcuna retorica – mi hanno soddisfatto completamente, ma ho riscoperto anche alcuni personaggi. Ho trovato valorizzate alcune figure. Melanie in particolare acquista una forza, uno spessore, che nella prima lettura non avevo colto. Ho trovato una lingua più scorrevole, moderna, che non mi fa rimpiangere l’inglese, una lingua che, per altro, non conosco alla perfezione. La Mitchell aveva un’incisività, una concisione per quei tempi straordinaria. E mi sembra che la traduzione la restituisca appieno.
ANNAMARIA BIAVASCO — Noi l’abbiamo affrontata con una certa soggezione per il mito, che pure non condividevamo. Ma le persone attorno a noi ci dicevano: traducete Via col vento? Poi ci recitavano battute o passi.
Parte di questo alone viene dal film. Quanto vi ha influenzato?
VALENTINA GUANI — Noi siamo andate dietro al testo. Abbiamo cambiato quasi tutto rispetto alla precedente traduzione, a partire dal celebre incipit, ma abbiamo anche fatto concessioni al film. Quella più grande è “Francamente me ne infischio”. Nell’originale francamente non c’è. È solo I don’t give a damn. Invece nel film c’è anche frankly. O perdirindina. Alcune differenze dipendono dal fatto che la nostra traduzione è integrale: questo rende i personaggi più completi. La prima non lo era, più per motivi di risparmio che di censura. Scarlett, per esempio, nella nostra versione è civetta ma meno superficiale, più sfaccettata.
MARIA GRAZIA CIANI — È stata una scoperta leggere tutto, anche la sua esperienza di madre distratta e non particolarmente tenera, che comunque appartiene al suo carattere.
ANNAMARIA BIAVASCO — Nei tagli della traduzione del ’37, che non sono di intere scene ma di qualche battuta di dialogo, di particolari descrittivi, è sicuramente andato perso qualcosa.
Uno dei cambiamenti più evidenti riguarda la parlata degli schiavi: «sì badrona» per esempio diventa «sissignora». L’avete fatto anche per adeguarvi al cambiamento della sensibilità?
ANNAMARIA BIAVASCO — In questo credo che la traduzione del ’37 abbia esagerato.
MARIA GRAZIA CIANI — A me dette subito fastidio e ho apprezzato moltissimo che sia cambiata.
Ma non era un modo, anche nell’originale, di raccontare quell’epoca negli aspetti che ora ci danno fastidio, come il razzismo?
MARIA GRAZIA CIANI — Credo che nell’originale ci fossero della sfumature diverse, ma non così grossolane...
ANNAMARIA BIAVASCO — Infatti. La Mitchell riprende un accento, un suono, ma la parlata degli schiavi non è così umiliante, grottesca. E per quanto riguarda il termine nigger in Gone with the Wind ci sono 104 occorrenze. Nella nostra negro, negri ecc... ricorrono meno di 50 volte. In quella del 1937 erano 469.
CLAUDIO GROPPETTI — Tutto questo dimostra una cosa: il nostro lavoro è indispensabile. Se non ci fossero i traduttori non ci sarebbe una letteratura mondiale.