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 2020  marzo 08 Domenica calendario

Intervista a Tatiana Calderón, collaudatrice di F1

Dici Colombia, applicata alla Formula 1, e pensi a Juan Pablo Montoya: connessione automatica, anche corretta perché in fondo, pur non avendo mai vinto un Mondia-le, in qualche modo è stato fra i co-protagonisti di un’era breve ma intensa. Oggi, però, la Colombia dell’automobilismo è donna, ha il nome e il sorriso aperto di Tatiana Calderón, 27 anni da festeggiare martedì, per il terzo anno collaudatrice ufficiale Alfa Romeo Racing in Formula 1, assieme a Robert Kubica, già prima donna in Formula 2 nel 2019 e pronta, in questo 2020, a dividersi fra i test Alfa, le gare endurance su GT e la Dallara-Honda nella Super Formula giapponese. Prima donna anche lì. Non è un caso: «Sinora il mio percorso è stato un viaggio incredibile. Adoro il motorsport, è un amore che cresce per me giorno dopo giorno».
Come è cominciato?
Avevo nove anni, e mia sorella Paula mi portò in una pista in cui si noleggiavano kart. Velocità, adrenalina. Amore a prima vista.
Sembra facile.
Un po’ meno lo è stato convincere i genitori a farci gareggiare. Ma ce l’abbiamo fatta. E ora è la mia vita.
Determinata, Calderón. L’idolo?
Naturalmente Montoya, sono cresciuta guardandolo in tv, è sempre stato il mio mito e l’ho seguito da tifosa.
Su di me la sua carriera ha avuto un grande impatto.
Poi è diventata pilota anche lei. Da dover convincere mamma e papà per un kart a preparare l’Alfa Romeo per Raikkonen e Giovinazzi. Ne è valsa la pena.
Senza dubbio. Kimi sfidava Montoya quando ero bambina, ora lavoro con lui. Potere condividere impressioni e informazioni con qualcuno che seguivi da piccolo è davvero qualcosa di speciale. Con Antonio invece siamo stati compagni di squadra in Formula 3: è un mio coetaneo, un ragazzo molto aperto e intelligente. Bella coppia.
Diversi, però.
Per chi, come me, ha a che fare quotidianamente con loro, è un’occasione di crescita. L’età e la carriera mostrano le differenze, sia nei modi in cui ragionano relativamente alla macchina, sia per come si approcciano ai media. Posso studiarli e imparare. Kimi poi ha esperienza da vendere, è old school.
A fine gennaio, lei ha partecipato su Lamborghini Huracan alla 24 ore di Daytona con un team di sole donne: lei, Katherine Legge, Christina Nielsen e Rachel Frey.
Per me si è trattato di una fantastica opportunità. È stato il mio debutto nelle Sports Car e la mia prima 24 ore. Rispetto alle monoposto è necessario che si crei una grande atmosfera: essendo tutte donne, è stato proprio così. Stava andando tutto bene sino a quando non abbiamo avuto un problema alla pressione della benzina. Non abbiamo potuto concludere la corsa.
Del vostro team hanno scritto in tutto il mondo.
L’esperienza è stata esaltante, e a me ha riportato alla memoria quando, da ra- gazzina, dividevo la guida in gara con mia sorella. Nell’endurance il gioco di squadra è fondamentale: a Daytona le mie compagne erano più esperte di me. Mi è servito, mi è piaciuto, lo rifarò.
È stata appena pubblicata la entry list della 24 ore di Le Mans. Richard Mille Racing affida la sua Oreca a lei, Sophia Flörsch e ancora Legge. Ci sta prendendo gusto, ma il suo obiettivo qual è?
Correre un Mondiale di Formula 1 da protagonista. Da tempo non vediamo una donna in pista in gara: ancora oggi, è uno sport dominato dagli uomini. Noi donne dobbiamo lavorare duramente per guadagnare credibilità.
Questione di genere?
In parte. Dobbiamo lavorare il doppio sul lato fisico, perché abbiamo strutturalmente il 30% di muscoli in meno. Detto questo, è decisivo riuscire a farsi rispettare, e negli sport motoristici questo è un problema a prescindere dal genere.
Perché sono così poche le donne che si approcciano agli sport motoristici?
Credo che molte ragazze nemmeno sappiano che sia un’opzione per loro, che possono tentare. Così, al contrario dei maschi, non iniziano da giovanissime a correre coi kart: nasce tutto da lì. Ma, sebbene lentamente, le cose cambieranno.
Cosa serve?
Maggiori opportunità, ma è difficile che si aprano le porte dei top team per le donne. La verità è che la gente deve iniziare a pensare seriamente che siamo davvero capaci di ottenere risultati ad alti livelli.
La FIA ha lanciato nel 2019 la W Series, il Mondiale femminile su monoposto. È un passo avanti o un passo indietro in questo processo?
Da un lato è positiva la volontà di favorire la partecipazione femminile nel motorsport, e che si diano possibilità a ragazze che, altrimenti, non potrebbero permettersi di correre a certi livelli.
Dall’altro?
Ritengo onestamente che non fosse necessario: siamo più che capaci di competere con gli uomini. Purtroppo però correre costa parecchio, e per arrivare in alto, potersela giocare e ottenere risultati è fondamentale avere ottimi sponsor e contratti. Ecco di cosa c’è bisogno.
Lei ci sta provando.
Guidare una Formula 1 era il mio sogno sin da bambina, e ripensandoci è quasi incredibile essere arrivata a farlo con continuità in un team di grande importanza. È il coronamento di 15 anni di lavoro, e sì, sono molto orgogliosa. Ma c’è un’altra speranza.
Prego.
Essere la prossima donna in gara in un Gran Premio, colei che ispirerà la prossima generazione di ragazze che hanno il mio stesso sogno.