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 2020  marzo 08 Domenica calendario

Quando Bufalino disse: «Il successo è niente»

Mi è capitato di essere il «primo giornalista del continente» (così Gesualdo Bufalino scherzosamente ricordava l’incontro) che venne a Comiso per parlare con lo scrittore. Quaranta anni fa, nei giorni in cui era pubblicato Diceria dell’untore. Lo aveva lanciato con una lunga conversazione Leonardo Sciascia che lo aveva presentato come ingegnoso nemico di se stesso, sfuggito ad ogni tentazione. Aveva letto tutti i libri senza mai pubblicarne uno. Poi la resa. Perché aveva ceduto? 
SICUREZZA
Bufalino mi apparve subito come un interlocutore amabile, raffinato, coltissimo, aggiornato cultore di jazz, cinema muto, stampe e fotografie antiche. Timidissimo ma estremamente sicuro di sé, della sua scelta letteraria. «L’arte – mi diceva sfogliando le pagine di un libro – è un fatto privato, soliloquio, preghiera, esorcismo, passatempo, bozza per un delitto o uno scasso. La parola ne è il grimaldello: non tanto nel suo valore orfico quanto in quello medicinale e ludico. Io scrivo per giocattolo e medicina fisica e morale. L’arte è come un arto, è la protesi di una vita non vissuta». E la letteratura un impegno assoluto, una missione da condurre in porto a scapito della vita, qualcosa a cui appunto sacrificare l’esistenza. Qualcosa che tornava come ossessione nel momento in cui si stava a sorpresa delineando il successo letterario, la notorietà, la gloria. «Questo successo – diceva Bufalino – non mi ha dato più di tre minuti di pienezza. Poi mi sono assuefatto. Evidentemente i bacilli della scontentezza in me sono perniciosi, resistenti». 
Non solo ma ora c’era una nuova spina, quella che lo scrittore chiamava il rimorso di aver tradito – per gelosia di sé – un destino, di «aver aspettato troppo, di aver sbagliato i miei conti con la vita. Mi ripeto indegnamente con Rimbaud: Par délicatesse, j’ai perdu ma vie».
Confessava un rapporto ambiguo con la sua terra: da un lato sentiva per essa un legame estremo totale e totalizzante, dall’altro la escludeva dal panorama delle sue passioni per le realtà così ingrate, così dolorose così levantine a volte «da vergognarci di vivere, di avere questo gruppo sanguigno». L’unica risorsa era stata censurare quella realtà, rimuoverla in senso psicoanalitico. Quanto al vivere in provincia si era trattato piuttosto di una scelta obbligata, e quindi senza valore. «Quando uno si trova in una specie di carcere, deve abituarsi ed io ho fatto come quel topo che trovandosi in trappola, ha mangiato l’esca che c’era, cioè le piccole gioie, le felicità minori della provincia».
Bufalino mi fece vedere le foto della sua vita, mi mostrò i libri e i dischi raccolti nel suo studio. Uno studio tana, uno studio isola, uno studio trappola. Io lo osservavo, era tanto diverso dagli scrittori che hanno successo o che si apprestano ad averlo. E anche lui mi osservava – aveva preparato le risposte ad ipotetiche mie domande su candidi foglietti. Ero il rappresentante di quella società del rumore o dello spettacolo che entrava nella sua vita, da cui istintivamente si difendeva ricordandosi di essere sempre vissuto in uno stato di continuo allarme, «per il deperire inevitabile di ogni cosa, istante dopo istante». Mi disse: «Lei ricorderà il Diario di Renard, sì, proprio l’autore di Pel di Carota. Ad un certo punto scrive: cammino in mezzo ai campi, alzo gli occhi al cielo, poi li abbasso a terra, penso a quello che farò domani, a oggi, a ieri e mi chiedo: e poi? Il problema è tutto qui. Questo e poi è un’autodomanda, la più agghiacciante che si possa fare. Se anche lei, che si è scapicollato fin qui a Comiso, si fosse detto, va bene, vado a fare l’intervista a Bufalino. E poi?»

LA SERATA
Poi, verso la fine del nostro incontro, ci trovammo sul corso cittadino. I giovani rumoreggiavano con i motorini, contrattavano tra loro la serata. Bufalino mi aveva appena parlato delle antiche immagini di Comiso, di un libro di fotografie. Proprio quel volume straordinario, scandito da un’ansia di dire in cui convivono lo scrittore e il saggista in equilibrio barthesiano che aveva messo in guardia i suoi primi lettori, Elvira Sellerio e Leonardo Sciascia: dietro quel testo doveva esserci uno scrittore ancora ignoto, ci dovevano essere altri libri.
Poi, Bufalino mi aveva ricordato la vita comunitaria di un tempo, con i mestieri scomparsi, un vero e proprio museo d’ombre proustiano. Poi, mi aveva parlato di un conflitto tra padri e figli, tra generazioni che ricordano e generazioni che sperano, un «non sapersi da parte degli uni, rassegnarsi alla presunzione degli altri, che il passato sia un’enorme massa damnationis che, come il cadavere della commedia di Ionesco, si moltiplica, imputridisce, non si sa come liberarsene».

IRRAGGIUNGIBILE
Poi, si era scusato, doveva lasciarmi, tornare a casa dove lo attendevano i genitori novantenni con cui ancora viveva. Poi, all’improvviso, immerso nel brusio del corso di Comiso, sentivo tutta la irraggiungibile tristezza e stanchezza di quell’uomo che avevo imparato a conoscere, di quello scrittore con l’impronta di un grande disperato e di un grande maestro di stile che si allontanava, chiuso nel cappottino grigio ancora invernale mentre intorno i motorini continuavano a fare la solita grancassa. «In quello che scrivo sospetto sempre l’abbandono a un’operazione di bassa lussuria, una sorta di interminabile falsificato pettegolezzo su di me», mi aveva appena detto.