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 2020  marzo 08 Domenica calendario

Storia del ciclismo femminile

Il «Diavolo in gonnella» corre veloce incontro alla storia. Alfonsa Rosa Maria Morini nasce a Castelfranco Emilia nel 1891, è una corritrice che cavalca quel rottame di bici del medico condotto barattata dal padre in cambio di qualche gallina. Supera pregiudizi e sorrisini, e nel 1911 realizza a Moncalieri il record mondiale di velocità femminile: 37,192 km/h. Poi, riceve dal futuro marito Luigi, oltre al cognome – Strada, ben più di un destino – anche una bici da gara come regalo di nozze. Luigi fa il cesellatore di professione e il meccanico per passione. Alfonsina, rivoluzionaria e anticonformista, è una star, si esibisce nei velodromi di tutta Europa, corre per conto di una casa produttrice di tubolari che così si fa pubblicità. È la prima e unica donna ad aver corso un Giro d’Italia con i colleghi uomini, anno di gloria 1924. A Milano sono in 90 al via, hanno davanti dodici tappe: «Ho le gambe buone, i pubblici di tutta Italia mi trattano con entusiasmo – confessa Alfonsina al traguardo -. Non sono pentita. Ho avuto amarezze, qualcuno mi ha schernita ma io sono soddisfatta e so di aver fatto bene».
Come bene ha fatto Antonella Stelitano, che da anni si occupa di sport e diritti umani, a raccogliere la lunga cavalcata delle donne cicliste nel saggio-almanacco Donne in bicicletta, ricco di gare, storie e fatiche. Un romanzo di coraggio e conquista, prima ancora che un saggio. La rincorsa inizia a fine Ottocento, da Boston se si seguono le imprese di Annie «Londonderry» Kopchovsky che, per scommessa, nel 1894-1895 fa il giro del mondo in bici, scrivendo quotidiane corrispondenze per il New York World e autofinanziandosi. La sua è una storia immensa diventata il libro Il giro del mondo in bicicletta. La straordinaria avventura di una donna alla conquista della libertà di Peter Zheutlin.
Nel 1897, Amelie Rother, giornalista e pioniera del ciclismo femminile in Germania, scrive: «Se non fosse stato inventato un veicolo che ci permette di pedalare con le nostre gonne lunghe, non avremmo mai raggiunto i risultati odierni», anche se perfino il barone de Coubertin, padre delle Olimpiadi moderne, parlando di ciclismo, disse che «questo scompiglio non è fatto per le donne». Ma il sentire comune è un altro. Scrive Emile Zola: «Un giorno l’emancipazione della donna passerà attraverso la bicicletta. Se avrò mai una figlia, la metterò sulla bicicletta ancor prima che abbia compiuto dieci anni, così che possa, fin da piccola, imparare alla perfezione come ci si deve comportare nella vita».
Tutto si muove. Dagli Usa arriva un abbigliamento più adatto allo sport, la regina Margherita si fa ritrarre nel Parco di Monza e la bicicletta da vezzo diventa status symbol: «la donna in bici è spazio, spregiudicatezza, libertà, quasi un involontario manifesto futurista». Nascono i club per sole signore, le gare, soprattutto su pista, si moltiplicano. Poi, la bici sarà l’arma di battaglia di tante partigiane, come ci ricorda L’Agnese va a morire di Renata Viganò.
Terminata la guerra, inizia un’altra storia, una lenta conquista fatta di battaglie e sacrifici. Nel 1958 a Reims si svolge il primo Mondiale femminile ma le italiane saranno presenti solo dall’edizione del 1962 dove, ricorda l’atleta Giuditta Longari «ci mandarono senza neanche una tuta: solo una maglietta e un pantaloncino per il giorno di gara». Ma, intanto, nasce la prima squadra femminile, la Faema Sarmato e a rompere tutti i tabù arrivano le imprese di Maria Canins. A 32 anni, si toglie gli sci e sale in bici: vincerà due Tour de France e un Giro d’Italia e decine di gare internazionali ma, con la fermezza dei timidi, non si stanca di ripetere «corro per le spese. Se mi pagano viaggio e alloggio, sono già contenta. Il professionismo non c’è. Lo stipendio non esiste».
A 25 anni dal ritiro della «Mammina volante» il ciclismo femminile soffre di mali antichi, un po’ come tutto lo sport al femminile, anche se cerca di tirare la volata alla modernità. Le squadre femminili ci sono, le tesserate aumentano ma il professionismo è una chimera e attrarre gli sponsor è un Tourmalet sotto il diluvio. Le medaglie olimpiche, dopo i primi trionfi di Atlanta 1996 con Antonella Bellutti, Paola Pezzo e Imelda Chiappa, non mancano ma la parità non è mai a referto. Dice Elisa Longo Borghini, bronzo a Rio 2016 nella gara su strada: «Sarei per uno sport senza distinzioni di genere. Mi piacerebbe considerare lo sport come universale, senza dover dire maschio o femmina. Dovrebbe essere la cosa più democratica perché non ci sono differenze fra chi gioca a pallone, chi corre, chi va in bici. Tutti uguali, persone e basta». In fondo, per arrivare nel futuro, basta tornare al libro del 1886 The common sense of Bicycling: Bicycling for ladies: per Maria Ward esistono solo bicyclist. L’emancipazione è una salita stretta e ripida: il cuore pulsa forte perché intravvede la cima.