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 2020  marzo 08 Domenica calendario

Io Ulay lo conoscevo bene

Ulay è stato un pioniere della fotografia Polaroid e il padre della performing art assieme alla compagna di lavoro e di vita Marina Abramovi?. Con lei, per dodici anni, attraverso il solo uso del corpo ha dato vita a opere come Imponderabilia e Relation in Space. L’ho conosciuto a Lubiana nel 2010 dopo aver fatto una lunga intervista ad Abramovi? a New York. L’artista serba si stava preparando per la grande retrospettiva The Artist Is Present al MOMA, durante la quale, a sorpresa, i due si riconciliarono dopo anni di ostilità e battaglie legali sui diritti d’autore poi risolte. Nella prima conversazione siamo finiti ripetutamente sulla sua infanzia traumatica e sul suo senso di solitudine: «sono cresciuto negli anni Sessanta – mi disse -, sono un figlio della guerra. L’arte non è più possibile dopo Adorno, dopo Auschwitz... Ma se andiamo più in profondità nel passato, dai dadaisti in poi gli artisti hanno salvato l’arte incorporando un forte elemento etico nel proprio lavoro, soprattutto a causa degli orrori ai quali hanno assistito e a cui sono sopravvissuti. L’estetica è innocua. Non può cambiare il mondo. L’arte in quanto tale è innocua. La performance ha introdotto una svolta insolita in termini di percezione dell’arte. Le esibizioni possono essere estremamente frustranti per un pubblico ignaro, soprattutto quelle aggressive e masochistiche. Abbiamo fatto tutto con i nostri corpi. Nessuno degli spettatori ci ha fermato. Lo spettatore diventa un complice, un cospiratore».
Sul corpo Ulay ha fondato la sua arte, quando con Imponderabilia, realizzata a Bologna nel 1977, ha costretto il pubblico passare in uno spazio strettissimo tra di lui e Marina, che, nudi, offrivano al pubblico la loro vulnerabilità. L’imponderabilità del titolo stava nella decisione istintiva dello spettatore di girarsi verso il maschio o la femmina. In Relation in Space i due amanti interagivano a volte sfiorandosi, altre scontrandosi, mentre camminando o correndo, sempre nudi, provenivano da parti opposte. 
«I progetti che ho affrontato in passato non erano necessariamente belli, secondo i criteri dell’estetica formale tradizionale. Al contrario. Fin dall’inizio, ho cercato di integrare l’etica. Quando ho affermato venticinque anni fa che l’estetica senza etica è cosmetica, parecchi teorici dell’arte si sono arrabbiati con me. Anche la mia selezione di generi artistici quarant’anni fa era radicale e realistica. Che si trattasse di produzione di video, foto o performance. L’etica non può essere evitata. Probabilmente è una questione della mia generazione».
Era il 2010, un anno dopo si ammalò di un linfoma che lo costrense a cure molto dure. Dopo una regressione, la malattia si è ripresentata ancora più forte durante l’estate del 2017. Eravamo allora già amici stretti e mi ha chiesto di scrivere con lui la sua biografia a quattro mani. «Non sono arrabbiato con il mio corpo. Sono scoraggiato e disilluso. O si arrende il corpo o si arrende la mente. Nel mio caso, il corpo è inaspettatamente abbandonato dalla mente. Così, quando da questa merda mi ha colpito, non ho potuto esibirmi come prima. L’ho fatto per più di vent’anni, dal 1980 al 2000. Non volevo eseguire spettacoli di automutilazione. Quando mi veniva chiesto di farlo la mia risposta era sempre la stessa: Non sono abbastanza vecchio. Ho usato il mio corpo in ogni modo possibile, non sempre il più piacevole. Sono sopravvissuto. Il passato mi ha rafforzato. Ogni persona ha una sua personale soglia del dolore. Ho sperimentato me stesso e so quali sono i miei confini».
Un giorno, un paio di mesi fa nel reparto oncologico dell’ospedale di Lubiana, dove andavo a trovarlo per portarlo fuori in carrozzella a fumare e a bere il caffè, mi ha confessato di essere stato un bambino abbastanza triste. «Lo sai che sono nato in un rifugio durante i bombardamenti? Non ho né fratelli né sorelle, non ho mai incontrato nonni, zie o zii. Ho avuto solo un padre e una madre. Papà era molto malato. È sopravvissuto da soldato alla prima guerra mondiale; nella seconda è stato inviato al fronte orientale, ha partecipato alla battaglia di Stalingrado, a cinquant’anni». E non è stato un gerarca nazista come è stato detto dalla stampa. Ulay ha cercato prove di questa leggenda nei documenti ma non l’ha mai trovata. «Mio padre è morto quando avevo quattordici anni, mentre mia madre era incapace di prendersi cura di me dopo i traumi della guerra. Per questo dico sempre che mi sono fatto da me. Non so come sono sopravvissuto. A quindici anni sono fuggito in Scandinavia per sfuggire all’orfanotrofio. Per un anno ho girovagato per Danimarca, Svezia e Norvegia. Poi mi sono reso conto: viaggiare, sarà la mia vita. Da allora ha viaggiato sempre... alla ricerca di nuvole, acqua, ghiacciai». 
Ulay incontrò Marina nel 1976 ad Amsterdam, comprarono una vecchia auto della polizia francese e viaggiarono per cinque anni, vivendo di performance. Anche la loro separazione nel 1988 fece scaturire una performance, The Lovers: una camminata di 2500 chilometri per un ultimo sguardo al centro della Muraglia Cinese, partendo dai due estremi, Ulay dal Deserto del Gobi, Marina dal Mar Giallo.