Danilo Gallinari è uno dei tre di Oklahoma rimasti nello stanzone dove sono presenti quindici giornalisti, due telecamere, il cestone pieno di calzini sporchi e il cumulo di ciabatte arancioni col nome di ogni atleta stampato sopra. Se nello spogliatoio dei Knicks si entra a numero chiuso, anche questo un inedito, qui c’è più spazio ma anche maggiore desolazione. Con l’italiano, non a caso, sono rimasti un tedesco, Dennis Schroeder, e un canadese, Shai Gilgeous-Alexander. «Ci salutiamo dandoci il gomito?», esordisce il Gallo scherzando, abbassando il braccio ad altezza di uomo medio, prima di sedersi. A settembre lui giocava a Wuhan con la Nazionale contro la Spagna per un Mondiale che ora sembra vecchio di un secolo. Il suo posto è l’ultimo della fila, vicino alla stanza delle docce. Accanto, lo spazio è vuoto. Basta guardarsi intorno per cogliere l’altra novità: ogni giocatore si è spogliato e vestito a distanza di sicurezza dai compagni, circa un metro e mezzo. Ventisei armadietti, tredici posti occupati. Un giornalista arrivato da Oklahoma si china su Gallinari e gli chiede cordialmente notizie sull’Italia, ma lo fa tenendo le braccia incrociate in modo incongruo. L’azzurro, forse, non lo nota e risponde in inglese, dicendo che la situazione è molto «tough», dura. Ma quel ragazzo, un italoamericano di nome Joe Missatto, ha paura pure del collega italiano: «Oggi nel nostro stato abbiamo avuto il primo caso di contagio, a Tulsa», confesserà poi, continuando a tenere le braccia conserte per non stringergli la mano, dopo averne letto il nome italiano sul badge. Nella stessa sera in cui LeBron James ribadirà l’infinita speranza nell’America, dicendo «qui non è come l’Europa» e che lui, il “re”, non giocherà mai senza pubblico. Gallinari descrive una situazione drammaticamente diversa. «È tutto così difficile, lo è anche per me capire cosa sta succedendo davvero in Italia, se i numeri di cui parlano sono reali».
Ha sentito i suoi parenti?
«Penso continuamente a miei nonni, che vivono a Lodi. Non possono uscire. È una sensazione stranissima. E poi i miei genitori, gli amici. Mi arrivano racconti drammatici. Giri per Milano e non c’è nessuno, giri per Lodi e le strade sono deserte».
Nel vostro mondo è cambiato qualcosa con l’epidemia?.
«Abbiamo avuto un paio di avvisi. Ci ricordano di lavarci spesso le mani e di non stare a contatto con i tifosi.
Non possiamo più fare autografi, almeno per il momento».
La sensazione è che gli americani stiano sottovalutando il problema?
«L’Italia ha 60 milioni di abitanti, gli Stati Uniti 400 milioni, c’è un modo diverso di vedere le cose. Ma tutti dobbiamo rispettare le regole giornaliere che ci vengono date».
E quindi, alla fine, lei cosa si aspetta?
«Se si diffonderà, l’affronteranno.
Spero nello stesso modo con cui lo stiamo facendo noi».
In Italia si gioca a porte chiuse, pensa che succederà anche in America?
«Se l’hanno fatto lì, penso che probabilmente toccherà anche qui».
Mai capitato di giocare senza spettatori?
«In America sicuramente no, in Italia… devo pensarci, ma direi di no. Sarebbe strano».
Molto.
«È tutto così pazzesco».