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 2020  marzo 07 Sabato calendario

Biografia di Enrico Palandri raccontata da lui stesso

Ci sono scrittori che partono, si fa per dire, da Itaca e faticano a tornarci.
Anzi sperano di starne lontani come si sta lontani da qualcosa che è più grande della nostalgia che li abita. Itaca, dopotutto, è il sogno realizzato. Il porto sicuro. Il primo grande successo. Ma è anche l’amore che si trasforma in sospetto: e se non mi amasse davvero? Se non mi avesse mai amato? È il dubbio che se ti è andata bene una volta è facile che la seconda fallirai. È la sindrome dell’insuccesso dopo il successo. L’Itaca di Enrico Palandri fu Boccalone, nei tempi dell’Antiedipo, della Bologna rizomatica degli anni Settanta così gioiosamente esplosiva tra i frammenti di culture annegate nel vino delle osterie e “correndo mi incontrò lungo le scale” e di “Anna come sono tante”. Si entrava negli anni Ottanta e Itaca era già lontana. Neppure se vista dalla luna. Inchiodarsi al sogno di Boccalone?
«Poteva diventare un incubo, quello che si spalanca ogni volta che uno scrittore ha successo al proprio esordio», dice Palandri. Data di nascita 1956, radici a Venezia, dove è tornato a vivere oscillando con Londra e un pezzo della via Emilia che è ancora confitta nella testa.
Lo incontro dopo aver letto Le condizioni atmosferiche (edito da Bompiani), un ciclo di romanzi (in tutto sei) che dovrebbero rappresentare il lungo periodo (all’incirca vent’anni) in cui lo scrittore è vissuto a Inghilterra. Mi dà l’idea di un uomo che per essere troppo vicino alle cose narrate finisce col distaccarsene bruscamente per poi tornarvi pentito, trasformandole. Non è sperimentalismo, è un tentativo sentimentale di rivitalizzare un mondo che il tempo ha irrigidito.
Perché hai voluto rimettere le mani a dei romanzi piuttosto che scriverne di nuovi?
«Le due cose non si escludono. Ma resto sempre affascinato da ciò che apparentemente appartiene a una storia conclusa. Lo è davvero? E se è così cosa posso fare per farla tornare alla luce? Mi viene in mente lo scavo archeologico in cui il reperto si trasforma in un oggetto nuovo, chiamato a una seconda vita».
Un ciclo di romanzi è piuttosto impegnativo.
«Il ciclo si compone di sei romanzi cinque dei quali scritti in Inghilterra e solo l’ultimo in Italia. Le storie si rincorrono, i personaggi si inseguono, ed è come se quella materia un tempo incandescente si fosse raffreddata consentendomi nuovamente di prenderla in mano. Rimodellarla senza l’assillo dell’attualità di allora».
Lo definiresti un tentativo sentimentale di far rinascere amori ormai sopiti?
«Una componente sentimentale può starci perché è sempre difficile staccarsi dalle proprie storie. Ma qui c’è un’ambizione più alta: il bisogno di ripensare con maggiore chiarezza a quelle storie che hanno avuto conseguenze nella mia vita».
Sei sempre così legato agli aspetti autobiografici?
«Tranne Boccalone che fu il mio esordio – come tu dici la mia Itaca e per questo fortemente biografico - per il resto ho sempre cercato un distacco da me, dai miei coinvolgimenti privati. La maturità di uno scrittore si giudica anche da questo particolare e dal fatto che i miei romanzi cercano un baricentro più europeo che italiano».
“Boccalone” ti ha ossessionato?
«Un po’ sì. Non è facile gestire un successo letterario a 24 anni. E poi mi sono reso conto che non potevo tornare a quel mondo come se non fosse accaduto più nulla. E fu una delle ragioni del mio trasferirmi in Inghilterra».
Quell’esordio fu folgorante: una storia d’amore lancinante e al tempo stesso lo spaccato dell’Italia giovanile degli anni Settanta.
«Più che dell’Italia, di Bologna la cui vitalità, politica e culturale, fu incredibile. Anzi, le due cose si tenevano insieme».
In che senso?
«Il fattore comune era la dissidenza. La Bologna della metà degli anni Settanta era più figlia della Primavera di Praga che del Sessantotto francese. Era la critica al Pci e alla sua ortodossia».
In fondo le cose non erano così male rispetto a Roma o a Milano.
«È vero, apparentemente c’era meno malessere, meno conflitto sociale. Però se tutto funziona bene, se tutto è a modo, rischi di trovarti in una strana disperazione che è facile si trasformi in depressione. Ricordo che Gianni Celati definì Bologna una socialdemocrazia senza speranza. Voleva dire che il benessere aveva reciso gran parte della capacità critica e creativa».
La scrittura di “Boccalone” era poco ricercata, molto attenta al parlato.
«Era una lingua disambientata rispetto ai canoni letterari dell’epoca».
Qualcosa di analogo aveva in quegli anni prodotto Tondelli nel suo esordio con “Altri libertini”.
«Due modi di confessare ed elaborare un disagio che nasceva da un medesimo ambiente, o quasi. Qual era il problema? Nessuno della generazione a venire aspirava alla normalità. Basaglia e Ronald Laing, con le loro riflessioni sui “matti” avevano indicato la strada».
Come sono stati i rapporti con Tondelli?
«Ci siamo voluti bene, abbiamo condiviso molte situazioni. Ho ammirato alcuni suoi libri e uno l’ho perfino fatto tradurre da una casa editrice inglese. Ho scritto su di lui. Ma credo di aver sbagliato il mood. Per paura di essere troppo sentimentale e coinvolto ne feci un ritratto che oggi non mi soddisfa».
Da esordiente come arrivasti a pubblicare?
«Fu Celati a segnalare il manoscritto a Elvio Fachinelli che lo pubblicò per le edizioni Erba Voglio. Un recensore entusiasta di Boccalone fu Goffredo Fofi e fu lui a presentarmi a Elsa Morante. Fu così che da Bologna mi trasferii per un periodo a Roma».
Ambienti diversi?
«Nettamente diversi. Venivo dalla Bologna del ’77.
Movimentista, curiosa, ribelle, creativa. I miei riferimenti culturali erano Gianni Celati e Giuliano Scabia; ma anche Umberto Eco e Piero Camporesi.
C’era Radio Alice che fu un punto di aggregazione per molti intellettuali della mia generazione o quasi: Carlo Rovelli, Franco Berardi, Maurizio Torrealta, Klemens Gruber, Claudio Piersanti».
Tu cosa facevi in quella Radio?
«Avevo 21 anni e ricordo che improvvisai un programma sulla poesia insieme a Piersanti. Microfono aperto a tutti e tutti potevano leggere o recitare, da Rimbaud a Leopardi, da Artaud a Campana e magari nella piazza accanto il Living Theatre di Julian Beck e Judith Malina organizzava uno spettacolo di trenta ore in difesa di Radio Alice, considerata un’emittente eversiva».
Però non furono solo idee e scontri culturali. Il sangue e i morti diedero un’immagine molto più drammatica.
«Ma è una storia parallela che tentò di mescolarsi con quella di Radio Alice, nel nome della contrapposizione comune alla repressione. Ma fu chiaro che non c’era linguaggio comune tra noi e i movimenti più violenti, eredi sotterranei e spuri del Sessantotto. Ti dirò una cosa. Quando uscì Boccalone, incontrai per puro caso Oreste Scalzone a Parigi. Parlando con lui scoprii che non avevamo un solo libro in comune. Io mon capivo cosa mi diceva e lui non capiva cosa gli dicevo io. Ero sconcertato dalle sue certezze rivoluzionarie. Lo liquidai dicendogli che le rivoluzioni alla fine le pagano sempre i poveri, sia che riescano sia che falliscano».
Ti ho interrotto sul tuo arrivo a Roma.
«Diversa, certamente, da Bologna. Più sfilacciata e meno autoreferenziale. Ebbi la fortuna di incrociare un gruppo di persone straordinario: Giorgio Agamben e Ginevra Bompiani, Carlo Cecchi e Patrizia Cavalli, Alfonso Berardinelli e Fofi. Sullo sfondo delle loro discussioni si percepiva la presenza del lutto pasoliniano, ancora in fase di elaborazione».
Quel gruppo aveva al centro la Morante.
«Era la sacerdotessa di quella piccola chiesa. Frequentai Elsa assiduamente per sei mesi».
Con quali effetti?
«Nei miei primi libri il suo stile ottocentesco, curato e a tratti barocco, ha avuto qualche eco; ma i miei modelli alla fine sono stati altri. No, la vera influenza lei l’ha esercitata non a livello intellettuale ma poetico. Voglio dire che il suo comportamento fu per me più importante delle sue idee. Ogni suo gesto richiedeva un’adesione, una condivisione che nasceva dall’anima».
Cosa vuoi dire?
«Sapeva guardare molto a fondo nel cuore delle persone. E non era importante che fossero qualcuno o avessero successo. In quel periodo frequentava un netturbino di Napoli. Era una donna sorprendente. Da un momento all’altro potevi incorrere nella sua scomunica».
Ti riguardò?
«Non me, ma Dario Bellezza. Io, ti sembrerà strano, feci l’errore a un certo punto di dirle che avevo letto i suoi romanzi. Fu come se mi fossi sfilato l’anello magico perché cominciò a vedermi sotto una diversa luce.
Quella delle persone che non parlano più con i vivi ma con i morti».
Non capisco?
«Era convinta che il mondo dei libri non avesse niente a che vedere con la vita e l’amicizia, perché è un mondo parallelo, una specie di aldilà inconfondibile con le nostre esistenze. Elsa reagì così, con durezza.
Liquidando bruscamente quella che considerava solo una mia affermazione avventata. In quei mesi ho imparato molto dai suoi silenzi e dalle sue idiosincrasie. Certe volte mi telefonava la notte reagendo come un’innamorata tradita, solo perché non c’eravamo visti per un paio di giorni».
Perché lasciasti Roma?
«Forse per paura. Ero a mangiare insieme a Elvio Fachinelli e Filippini. Fu Nanni, a un certo punto, a dirmi che dovevo andare via e che Roma mi avrebbe lentamente masticato e buttato via. Mi sembrò un’immagine proporzionata al mio disagio. Scelsi Londra e non me ne sono mai pentito».
Sei stato a lungo in quella città?
«Quasi un quarto di secolo. Sono stato accolto e accettato lentamente. Ho perfino scoperto a Londra di essere italiano e in Italia di essere anche un po’ inglese. Ho sposato una scozzese, ho dei figli e ho lavorato e lavoro in una delle più prestigiose università, la Ucl, molto liberal, dalle cui fila sono usciti una trentina di premi Nobel».
Come ci arrivasti?
«Con un contrattino da lettore di italiano a 150 sterline a trimestre. Poi ho avuto la fortuna di essere un po’ come adottato da Laura e Giulio Lepschy che mi hanno donato una bella e importante rete di amicizie: da Carlo Dionisotti a Ernst Gombrich a Luigi Meneghello».
Lepschy era un grande linguista.
«Straordinario per le sue ricerche e anche un maestro affabile. In quegli anni, a proposito di linguaggio, venni ingaggiato dal Covent Garden per affiancare i cantanti d’opera aiutandoli a correggere la pronuncia italiana.
Fu un’esperienza portata avanti per tre anni. Intensa e bella. Tutt’altro che meccanica perché sentivo, in alcune voci soprattutto, la capacità di andare oltre la dizione e impadronirsi dell’interpretazione».
In fondo potevi decidere di non andare in Inghilterra e seguire quello che con “Boccalone” avevi seminato.
«Avevo una fottuta paura per tutto quello che stava accadendo. Il successo mi pesava più di tutti gli insuccessi che avrei potuto accumulare in seguito.
Avvertivo l’euforia di un ego che stava cambiando il mio destino. Ricordo che a un certo punto invidiai perfino la normalità di mio padre, un quieto generale che per tutta la vita aveva avuto a che fare con le istituzioni».
Come sono stati i rapporti con lui?
«I soliti conflitti generazionali, ma neppure tanto. Da parte mia si manifestò soprattutto un certo disinteresse familiare. Però ricordo che ormai novantenne e ricoverato i medici gli dissero che aveva ancora un paio di mesi di vita. Non mi sento depresso per questo, commentò sereno. E io gli dissi: pa’, lo sai che sei molto simpatico e che forse saremmo potuti diventare amici?
E lui: lo siamo sempre stati, ma non te ne sei mai accorto. Se la mia Itaca esiste forse è ancora lì, in quella frase».