Robinson, 7 marzo 2020
Il peggior noir che sia mai stato scritto
L’assassino che è in me di Jim Thompson è il peggior romanzo che possiate mai leggere. È misogino, con scene di brutalità che non è solo fisica, ma anche e soprattutto psicologica, è un romanzo razzista, classista, violento (è bene ribadirlo visto che, come sappiamo, quando finalmente riusciremo a eliminare la piaga della violenza dai film, dai libri, dalla musica, dalla fiction in tutte le sue sfaccettature, vivremo in un mondo in cui non ci sarà nemmeno bisogno di porgere l’altra guancia), scritto in una prosa che prova a imitare il Faulkner più modesto, un’estenuante confessione a cuore aperto che segue il ritmo cantilenante di un “io narrante” così folle e ripugnante da costringervi non solo a fare le ore piccole pur di farla finita con il suo continuo borbottio, ma che riuscirà a rovinarvi le restanti ore con incubi da augurare al peggior nemico. E questi sono i pregi. L’unico difetto è che terminata la lettura vi renderete conto che, come lettori, niente avrà più lo stesso sapore. Quando leggerete le ultime novità newyorkesi ( chissà perché sono sempre newyorkesi e mai, chessò, di Anadarko, Oklahoma) proposte come “audaci” o “provocatorie” vi verrà voglia di aprire una pagina a caso di L’assassino che è in me e leggerla ad alta voce sul balcone di casa. Quando leggerete sproloqui sulla padronanza della lingua di Grande Autore A Caso, vi strapperete i capelli ripensando a quanti strati di significato ( li ho contati: letterale, simbolico, psicologico, anticipatorio, tragico, comico, metaforico) sono nascosti nei dialoghi di questo romanzo. Se siete scrittori poi, evitatelo come la peste: un giorno potreste dover rispondere dei vostri scritti e la carta del «ma io non ho mai letto Jim Thompson» potrebbe indurre alla clemenza la giuria.
L’assassino che è in me è l’ABC del mestiere e allo stesso tempo è il non plus ultra del mestiere stesso. Thompson diceva che al mondo c’erano 32 modi per scrivere un romanzo, ma una sola trama: niente è come sembra. La semplicità (e il sarcasmo) sono propri dei geni. E, in effetti, il vicesceriffo Lou Ford, io narrante de L’assassino che è in me, non è quello che sembra. Non lo è Amy, la fidanzata storica che non aspetta altro che il buon Lou metta da parte i suoi scrupoli da bravo cristiano e si decida a metterle l’anello al dito. Non è ciò che sembra nemmeno Joyce, prostituta che vive ai margini della piccola cittadina sperduta di uno dei tanti luoghi immaginari non solo dell’America più profonda, ma di quel tipo di provincia nascosta che solo di tanto in tanto le cronache lambiscono. L’intreccio lo riassumiamo al suo livello più superficiale: bisogna che il buon vecchio Lou faccia sloggiare Joyce perché il figlio di uno dei notabili se ne è invaghito. E non sono cose che si fanno, fra noi brava gente. Solo che Joyce «… fu come un vento che soffia su un fuoco morente…». Si cita spesso Thompson come una specie di Faulkner minore e strambo, ma a ben vedere, più che Faulkner bisognerebbe ricordare il poeta William Carlos Williams e il suo tentativo di strappare dalla polvere dei musei i Classici per gettarli nel fango della strada non per mortificarli, ma per farli tornare a respirare. Magari aggiungendo, come fa Thompson, un po’ di spunti autobiografici: sangue giovane ( e amaro, quanto amaro) per rispondere all’eterna domanda «Ma noi esseri umani, cosa siamo davvero?». Questo era il motivo per cui quest’omone di un metro e novanta, gentile con tutti tranne che con sé stesso, alcolizzato, preso a pugni dall’American Dream ( non sarebbe ora di smettere di chiamarlo così visto che è diventato slogan che ha inglobato il pianeta intero?) si alzava dal letto la mattina. Dice la leggenda che quando gli fu comunicato che avrebbe perso l’uso della vista, rendendosi conto che non sarebbe più riuscito a scrivere Jim decise, semplicemente, di smettere di mangiare e bere. Morì il 7 aprile del 1977. O forse no. Rileggendo L’assassino che è in me per l’ennesima volta, ho avuto, chiara, la percezione di qualcuno, accanto a me, che se la rideva dei miei tentativi di chiudere il libro prima della parola fine. Così ho fatto le ore piccole. Ancora una volta.