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 2020  marzo 07 Sabato calendario

Richard Yates dopo Revolutionary Road

È interessante il gioco dei titoli; interessante, intendo dire, come il titolo di un romanzo possa mutare da una lingua all’altra, per motivi, diciamo così, editoriali. Con l’idea forse di accreditarne più facilmente il successo, la prima edizione italiana di Revolutionary Road, che uscì nel 1964 per Garzanti nella traduzione di Adriana Dell’Orto, fu I non conformisti. In quel caso, la scelta dell’editore tradiva il titolo originario – che più semplicemente allude a una zona residenziale del Connecticut – con l’intento, forse, di acclimatare il romanzo americano nella tradizione italiana di un realismo alla Moravia, che puntava sulla descrizione critica del conformismo borghese, che è in effetti al centro del romanzo. Non v’è dubbio che in quel romanzo Richard Yates descrivesse i traumi e i tabù di una “middle class” che, per quanto illuminata da ispirazioni più elevate, Frank Wheeler, il protagonista, non esita a definire ipocrita: «È come se tutti si fossero tacitamente accordati per vivere in uno stato di perenne illusione. Al diavolo la realtà! Dateci un bel po’ di belle stradine serpeggianti e di casette; fateci essere tutti buoni consumatori… e se mai la buona e vecchia realtà dovesse venire a galla e farci bu!, ci daremo un gran da fare per fingere che non sia accaduto».
Intorno allo stesso tema cresce il penultimo romanzo di Richard Yates, che nella lingua in cui nasce si intitola Young Hearts Crying, sì che siamo invitati a intonarci al pianto di giovani cuori infranti, mentre dietro, in controluce, chi conosca la passione di Yates per Francis Scott Fitzgerald, riconoscerà il volto di tutti i giovani tristi, protagonisti del libro di racconti che Fitzgerald pubblicò appena dopo Il grande Gatsby. Ma in italiano il titolo cambia e, nella peraltro ottima traduzione di Andreina Lombardo Bom, diventa Il vento selvaggio che passa, offrendoci così una metafora, a cui ogni lettore darà senso a seconda della sua propria esegesi; pur restando che la prima e più ovvia interpretazione, seguendo la trama, non potrà che essere quella che coglie come l’elemento selvaggio della giovinezza, in ognuno dei personaggi, declini nel conformismo di una medietà di vita tipica della middle class americana.
I sogni di gloria dei vari giovani – uomini e donne, il cui destino anima l’intreccio secondo un’idea propria del romanzo di formazione – in effetti si spengono in una esistenza monotona, ripetitiva, immersa nella noia di sbronze e tradimenti coniugali. In una pumblea, inautentica, narcotizzata tristezza. Come già era accaduto per i coniugi Wheeler di Revolutionary Road, anche i coniugi Davenport de Il vento selvaggio che passa affrontano l’iniziazione dal sogno alla realtà. È quel rito di passaggio, che il romanzo descrive secondo una parabola che li vede ammalarsi d’arte, e nell’arte cercare la guarigione – nell’illusione di evadere dalla noia esistenziale grazie a un’esistenza bohemienne. Insomma, nell’aspirazione all’arte.Ed è così che emerge un amaro fondo autobiografico in questo interessante romanzo, che in controluce descrive in realtà Yates stesso, mentre scriveva il suo unico capolavoro, Revolutionary Road. Della cui unicità l’autore è il primo a essere consapevole: non riuscirà mai più a confezionare un altro masterpierce, o chef d’ouvre, o capolavoro come quello.
Lo fa dire in questo romanzo al protagonista Michael nell’ultimo incontro con Lucy: in fondo quello che volevano, si confessano i due ex- coniugi, era entrare nel “mondo dell’arte”, ma come osserva lucida, spietata Lucy ( sempre, si noterà, le donne di Yates sono più lucide degli uomini): «Affanculo l’arte… Abbiamo passato la vita a inseguirla, senza mai indugiare a chiederci se non fosse fuori della nostra portata… O se addirittura non esistesse».
Ecco il dubbio che distrugge non solo l’illusione, ma il senso della vita stessa. Una vita che per chi la vive, ricade nell’alienazione. Così come l’opera stessa per chi la scrive, più che come “opera” nel senso di creazione, si realizza in quanto “prodotto”, nel senso di produzione di una merce per il consumo. È questo l’arte? si chiede Davenoport. E ne dubita, e il dubbio alimenta una tragica scontentezza: se questo tipo di letteratura, che non solo in America si pratica e si esercita grazie alle scuole di scrittura – di cui peraltro vive, come ogni altro operaio e impiegato, non solo lo scrittore protagonista del romanzo, ma lo scrittore stesso, Richard Yates; se questa pratica di scrittura producesse semplicemente oggetti che rappresentano non tanto il magnifico trionfo della creatività del genio individuale, ma segnalano il più banale successo della logica della produzione di merci per il mercato? Se così fosse, non sarebbe finita una certa idea dell’arte? Ai posteri l’ardua sentenza.