Che effetto le fa ritrovarsi davanti a «una cosa scritta trent’anni fa», vi si riconosce ancora?
«In I baffi, sì. Credo sia stato il mio primo buon lavoro di fiction. Semplice, logico. Ci sono romanzi che sono puzzle, devi mettere insieme tutte le tessere del mosaico. Altri, come questo, sono un filo che si tira e sistema ogni cosa. Ricordo che partii dall’idea, l’uomo che si taglia i baffi ma nessuno se ne accorge, anzi tutti sostengono non li abbia mai avuti, pensando di farne una novella. Avevo solo il what if di partenza, ma poi proseguii, nella casa di un amico a Biarritz, quasi in tempo reale, ogni giorno di scrittura corrispondeva a una giornata nella storia. Ogni sera andavo a letto chiedendomi che cosa sarebbe successo l’indomani».
E questo la eccitava o le dava ansia?
«Direi più la seconda. Poi sono arrivato al finale e ne sono rimasto soddisfatto, proprio perché era, a suo modo, orrifico. Alla casa editrice una giovane editor ne fu spaventata. Lo apprezzò, ma disse che non l’avrebbe riletto mai».
Non pensa che molti possano aver equivocato il senso ambiguo di quella storia e il suo finale?
«Probabile. E accetto ogni possibile interpretazione. Quando girai il film tratto da I baffi, mi accorsi che gli attori e tutti quelli che ci lavoravano mi attribuivano una sorta di legittimità a fare il regista, lavoro non mio, perché pensavano conoscessi la verità della storia. Volevano crederlo. L’assenza di verità delude. Pensavano che potessi aver nascosto qualcosa: se non era nel testo, io comunque lo avrei conosciuto. È come se la fiction avesse più obblighi della realtà. Avessi inventato una storia come quella dell’Avversario, un uomo che vive per anni una vita finta, ingannando tutti, mi avrebbero detto che era esagerata, non credibile».
Ma quando si sceglie come oggetto la realtà, come si può avere sufficiente cura per maneggiare la fragile scatola contenente «le vite che non sono la sua»?
«I personaggi tratti dalla realtà impongono un trattamento particolare, ma varia se sono figure pubbliche o persone comuni. Con Macron, per dire, avrei molte meno avvertenze rispetto a uno sconosciuto, scatterebbe una sorta di diritto di cronaca. Il punto cruciale è la scelta di chi raccontare e mi sono dato dei criteri. Il primo è la necessità di farlo. Il secondo è che siano, in qualche modo, collegati alla mia vita».
Come riconosce il clic, la sensazione che sia proprio quello il personaggio?
«Questo resta un mistero. È una decisione istintiva. A un certo punto si sente una voce e la si percepisce come quella giusta. Deve essere qualcuno che ti è stato vicino, ma per altri versi resta lontano. Non qualcuno con cui identificarsi, piuttosto qualcuno da scoprire, pur partendo da una base di conoscenza».
Il suo istinto non le facilita le cose, non scatta per personaggi positivi, per gli eroi.
«Gli eroi spesso non sono stati personaggi positivi, non sono buoni».
Buoni o no sono spesso ancora vivi, e si leggeranno. Consente loro di farlo prima che il testo diventi definitivo?
«Dipende. Per esempio in Un romanzo russo, dove compaiono mia madre e la mia compagna del tempo, non l’ho fatto. E ho avuto qualche guaio. Per Vite che non sono la mia ho fatto leggere al giudice, Étienne, la parte che lo riguardava. Mi disse che era in totale disaccordo su alcuni passaggi. Poi aggiunse che non mi avrebbe mai detto quali fossero. Aveva accettato di diventare un personaggio e con questo si rimetteva alla mia visione degli eventi. Fu una scelta molto nobile».
E se ora qualcuno decidesse di scrivere di lei, lei che ha scritto di altri e di altri scrittori, come Limonov e Dick, come reagirebbe?
«Non potrei oppormi, non sarebbe logico: come potrei dire di non fare quel che io ho fatto?
Certo, sarei spaventato, ma non interferirei con il lavoro del biografo e mi imporrei, alla fine, di non sentirmi arrabbiato, o triste».
Potrebbe giocare d’anticipo e scrivere la propria autobiografia, definitiva e spietata, alla Knausgård...
«L’ho letto, ho letto La mia lotta. Assolutamente affascinante, a tratti tremendamente noiosa, ma al tempo stesso ipnotica. Di fare una cosa simile non me la sentirei, ma credo di aver scritto della mia vita a pezzi, quasi in ogni libro. In maniera obliqua è in tutti».
Limonov è stato piuttosto felice di come l’ha ritratto, almeno di quanto l’ha reso famoso.
Siete in buoni rapporti?
«Se vado a Mosca, il che accade sempre più di rado, beviamo insieme. Lui è davvero un personaggio, io lo vedo come un ragazzino, ma fedele alle sue idee. E questo mi piace. Ha una sua purezza. È ancora povero, nonostante ormai tutti lo conoscano. È stato anche uno scrittore di talento, almeno all’inizio. Disapprovo molte sue scelte, ma gli riconosco alcuni meriti».
Il che fa pensare a Peter Handke, altro talento con idee discutibili. Si può dare il Nobel a uno scrittore che professa quelle opinioni?
«Non condivido le sue posizioni. Ma intuisco la sua passione. Se uno dice cose che sa lo danneggeranno, e tanto, vuol dire che ci crede, è sincero e questo almeno va rispettato».
Lei è stato anche amico di Renaud Camus, il teorico della “grande sostituzione”, quella dell’islam al cristianesimo, poi gli ha scritto una lettera e non vi siete più parlati. Perché?
«Diciamo che Camus è, rispetto ad Handke, un caso di minor sincerità. Ha detto cose, ha trovato un pubblico, si è calato in quella parte. Mi hanno anche suggerito di utilizzarlo come personaggio per un mio libro, ma non lo trovo così affascinante, così universale».
Invece Jean-Claude Romand, il pluriomicida de “L’avversario”, lo è, universale?
«Sì, ma non in quanto pluriomicida. Quella è una cosa che neppure mi interessa, non mi avrebbe portato a scriverne. La cosa affascinante in lui era lo scarto tra l’immagine che proiettava di sé all’esterno, quella di un medico affermato, padre di famiglia modello e la coscienza di sé che aveva interiormente, quella di un impostore. Dov’è l’universalità? Nel fatto che tutti, a livelli diversi, siamo un bluff. Romand all’estremo, ma tutti, me compreso, abbiamo uno scarto tra immagine e realtà. E ne soffriamo».
Una volta, mentre era ospite della Fondazione Santa Maddalena, fuori Firenze, pensò di scegliere come argomento della sua conferenza “Si può essere nello stesso tempo un grande scrittore e un uomo felice?”. Ha raccontato di aver cercato esempi, poi di aver deviato verso un altro argomento. Allora: si può essere nello stesso un grande scrittore e un uomo felice?
«Non lo so, per questo ho cambiato argomento. Ci sono pochi esempi. In effetti non me ne viene in mente nessuno. Forse non esistono. O forse, a pensarci bene, forse Paul Auster. Lui mi sembra risolto, ha una vita che gli piace, sta invecchiando bene. Ma è l’unico che mi viene in mente, un’eccezione».
Vale dunque il luogo comune per cui l’infelicità favorisce la buona letteratura, la
ispira?
«Non ne sono convinto. Ho avuto dieci anni buoni, felici, in cui ho scritto Il Regno e Limonov».
Lei ha anche scritto “Vite che non sono la mia”, ma spesso dà l’impressione di raccontare «morti che non sono la sua». Ricordando il regista Claude Miller ha concluso: «Mi sono augurato, quando arriverà il momento, una morte come la sua». Come, esattamente?
«Quel che vorrei poter dire, morendo, è: “Ok, va bene, non è andata male”. Mi basterebbe questo, ma non credo sia poco».
E se la fine arrivasse adesso, proprio adesso, potrebbe dirlo?
«Dipende dai momenti. Darei risposte probabilmente diverse in diversi momenti».
Essere stato uno scrittore di successo non sarebbe bastato?
«No, quello no. Anche se sono soddisfatto di quel che ho scritto. Relativamente parlando è il meglio che potessi tirar fuori da me stesso».
Che cosa le è mancato?
«La stabilità. Sono sempre stato troppo irrequieto. E mi considero moralmente insoddisfatto. Vorrei essermi comportato meglio. Essere stato meno egoista, più altruista. Invece sono stato io, il mio avversario. Ma poi alla fine tutto si riduce a un’unica, centrale questione: la capacità di amare. In quel campo, ho rivelato molti limiti, soprattutto di durata. Ho provato a cambiare, mi sono fatto aiutare, anche dalla psicoanalisi. Ho fatto terapia per venticinque anni, non consecutivi, con tre analisti diversi. Ho affrontato molti ostacoli: depressioni, crisi, separazioni, blocchi creativi».
E non ha risolto?
«Il punto è: come sarebbe andata se non l’avessi fatto? Non c’è una risposta certa. Probabilmente sarebbero accadute cose diverse, altre sliding doors. Ma sono qui, sto ancora combattendo. La mia lotta, continua».
Con che cosa combatte?
«Con il libro che sto scrivendo e che uscirà in Francia in autunno. Anche questo ha uno spunto autobiografico. Ma la battaglia con lui è vinta, ho superato il giro di boa, quel punto in cui senti che il libro c’è, e da lì alla fine si vola».
Ha appena finito di girare un film con Juliette Binoche, è stato difficile?
«Se il film è riuscito, molto si deve a lei. Sul set c’erano attori non professionisti, una mescolanza che lei ha tenuto insieme, aiutando tutti, generosissima».
Film, libri, viaggi. Quando andò a Davos salì fino all’hotel che un tempo fu il sanatorio della “Montagna incantata” di Thomas Mann e scrisse che il vero lusso sarebbe ritirarsi lì. Ma rieccola nel caos di un quartiere multietnico di Parigi, è qui il suo posto nel mondo?
«Quello di Davos fu uno di quei pensieri che vengono e come sono venuti vanno. Il lusso per me è stare qualche mese in posti diversi a scrivere, come ho fatto spesso e come tornerò a fare quando mia figlia sarà più grande. Ora scrivo qui, in quell’angolo, su quella scrivania.
Fuori ci sono i rumori del mondo. Abito in questo quartiere da quindici anni. Era molto più multietnico. È cambiato e cambierà ancora. Si è imborghesito, gentrificato, come dicono, ma io sono uno di quelli che ha contribuito a questo esito. Se sono io stesso un melting pot? Mia madre è russa, l’anima russa dentro di me è cresciuta e l’amo, ma mi ritengo, sono, uno scrittore francese».