Tuttolibri, 7 marzo 2020
Una nuova biografia di Roberto Baggio
Chiedi chi era Roberto Baggio? Non bastano i numeri per saperlo e nemmeno le vittorie: i primi non spiegano abbastanza; le seconde, peraltro poi non tantissime, mistificano la possibile risposta. Ci sarebbero le sconfitte, poche ma pesanti, ma se è banale giudicare da un calcio di rigore, figuriamoci poi dalle sconfitte.
Roberto Baggio è stato quello che prima e dopo di lui non è più stato nessuno. E siamo ancora qui a raccontarlo e lo fa bene Stefano Piri che ha una scrittura asciutta come era Baggio. Quasi schiva, per raccontare una persona schiva.
Proprio come un ragazzo venuto da Caldogno e che Caldogno non se lo è mai tolto di dosso. Baggio è stato chiunque di noi abbia mai giocato a pallone, chi quel pallone lo ha cacciato in rete con una prodezza e chi invece l’ha sparato alto sopra la traversa. Ha indossato tante maglie finendo quindi per non indossarne nessuna, non è un mito ma neanche una semplice figurina. Non è mai stato Totti né Rivera, mai Del Piero o Paolo Maldini. Solo, un campione. Ognuno di noi ne ha smozzicato un pezzo di carriera: Vicenza, Fiorentina, Juventus, Milan, Bologna, Inter e Brescia le sue squadre, una carriera parcellizzata che ha trovato un tutto nella maglia azzurra. Lì, in Nazionale, è stato a un passo dalla gloria eterna, terzo a Italia ’90, finalista a Usa ’94 (ahi, Pasadena), fuori agli ottavi a Francia ’98 («è il terzo mondiale che perdo, scusatemi ma al quarto non vengo») disse negli spogliatoi di St Denis dopo l’eliminazione ai rigori per mano della Francia e con quella maglia si è divorato, oscurandoli, talenti come Roberto Mancini, quando era giovane, e Alessandro Del Piero, quando i capelli già erano venati di bianco.
Un look improbabile, il codino, le treccine, camicie troppo larghe, giacche troppo grosse, orecchino extra size, la conversione al buddhismo e ginocchia martoriate, una-due-tre volte. Una carriera partita in salita, prima il talento poi arrivava lui; Roberto Baggio, amato alla follia solo a Firenze, ma di un amore tradito. Una città in piazza per lui o contro di lui, difficile distinguere, un maggio fiorentino al contrario, fumogeni e insulti, cassonetti ribaltati, cariche della polizia, macchine incendiate. Baggio venduto alla Juventus, tradimento massimo. Scrive Piri: «Vederlo giocare è come aspettare una stella cadente nella notte di San Lorenzo… bisogna essere disposti a contemplare un’assenza».
Strano a dirsi per un campione che in serie A ha messo in fila 593 partite, 275 gol e un Pallone d’Oro, ma «da quando Baggio non gioca più» abbiamo cercato di classificarlo. Invano, però. Baggio è un puzzle, chiunque ha una tesserina del mosaico, ma nessuno riesce a comporre la figura piena. Il vero Baggio non esiste, nessuno di noi lo conosce, nemmeno Piri che però, dal detto e dal non detto ma intuito, ha provato a ricostruire una figura del nostro calcio che ha fatto dell’assenza la cifra più marcata. Si assentava in campo, non gradiva gli schemi tranne il suo. E una serie di infortuni, tarme del suo talento. Per dire: la Fiorentina lo compra dal Vicenza e lui si rompe prima ancora di mostrare un’oncia delle magie di cui era capace. Un destino che lo seguirà fino a perseguirlo. «In un certo senso - Piri sta descrivendo la stagione di Roberto all’Inter - non ha più bisogno di un corpo da atleta, perché capisce il gioco due volte meglio e più in fretta di chiunque altro, e questo gli basta per sfruttare al massimo ciascuno dei palloni che riceve. Lippi lo sostituisce comunque con Colonnese». Lui che nell’under 21 non ha mai giocato, gli facevano fare la riserva di Scarafoni (do you remember Scarafoni?), ora esce per Colonnese. Ai Mondiali del ’94 Sacchi lo cambia per fare entrare il portiere di riserva, «ma è impazzito» è quel labiale che fa il giro del pianeta. Ha trentatré anni Baggio quando sta all’Inter, dovrà ancora tagliarsi i capelli, «purificarsi» a Bologna e chiudere la carriera a Brescia. Il viaggio finisce dove inizia il libro, a San Siro, lo stadio che non gli ha voluto né male né bene, perché unire tutti significa anche non aver conquistato nessuno in particolare. Insomma, ecco che si arriva all’ultima recita di Roberto, sesto degli otto figli di Matilde e Fiorello che per lui hanno scelto «lo stesso nome degli idoli Bettega e Boninsegna». Sedici maggio 2004, lui ha la maglia del Brescia, un’altra sostituzione, ma stavolta esce per sempre: «Vieni a vedere come sto giocando - dice al cameraman nello spogliatoio di San Siro-. Guarda qua, eh? Bisogna vedere il liquido che c’è dentro» schiacciandosi la rotula. È una lunga storia d’amore non sempre corrisposta tra Baggio e il pallone. Chi c’era, ed eravamo in tanti, ha solo potuto applaudire. E guardare l’alba e poi il tramonto di un talento. Ma sempre da lontano.