Tuttolibri, 7 marzo 2020
Il romanzo di 1.600 pagine di Matthew McIntosh
«La sapienza è radiosa e indefettibile, facilmente è contemplata da chi l’ama e trovata da chiunque la ricerca». Inizia così, con questa citazione dalla Bibbia, il nuovo romanzo di Matthew McIntosh, intitolato ilMistero.doc. Appare immediatamente chiaro che l’autore si riferisce a se stesso, dal momento che il libro ha per protagonista uno scrittore che non riesce a trovare la chiave del nuovo romanzo dopo aver scritto un primo libro di successo. È esattamente quello che è accaduto a McIntosh con Va tutto bene, accolto da eccellenti recensioni nel 2003, a cui fa seguito oggi ilMistero.doc dopo una gestazione di quindici anni.
Questo nuovo romanzo, in uscita per Il Saggiatore con traduzione di Luca Fusari, è lungo 1600 pagine e alterna elementi chiaramente autobiografici ad altri del tutto romanzati che consentono numerose divagazioni e cambi improvvisi di approccio narrativo: esemplare in tal senso l’amnesia del protagonista Daniel. Ne risulta un’opera sorprendente, spesso spiazzante, ma sempre affascinante, che conferma una personalità assolutamente originale, nella quale la ricerca esistenziale si identifica con quella espressiva.
Nativo di Federal Way, un sobborgo di Seattle, McIntosh si era messo in mostra a 26 anni con Va tutto bene, un libro in prima persona che ricordava le atmosfere di Raymond Carver: la solitudine andava di pari passo con l’anelito di redenzione, in un percorso esistenziale caratterizzato da lavori modestissimi, che già allora rispecchiavano quelli dell’autore. Questo nuovo testo, che ha ricevuto l’osanna di autori quali Rachel Kushner («è ambizioso nel senso migliore del termine: tenta qualcosa di nuovo e con una nuova vitalità, riuscendoci perfettamente») rivela, all’interno di una struttura postmoderna, uno sguardo che alterna la quotidianità, il pop e uno sguardo volto ed elementi classici, se non eterni, come le scritture sacre.
Il lungo periodo di elaborazione sembra aver spostato il riferimento primario di McIntosh da Carver al Foster Wallace di Infinite Jest, ed è sintomatica in tal senso la mescolanza di fotografie, frammenti, appunti, brani di testi teatrali con riflessioni morali
Non tutto risulta a fuoco, e a volte ci si perde in divagazioni che oscillano tra l’ironia e il dolore, ma il risultato è sempre suggestivo e illuminante. «Io sono assolutamente lusingato dall’essere accostato a David Foster Wallace» mi racconta dall’isola di Oahu, dove è andato in vacanza per qualche giorno «ma devo ammettere di averne letto solo i saggi e i racconti brevi: ho sul mio comodino Infinite Jest, ma non l’ho mai letto, e so che questa ammissione mi farà perdere qualche ammiratore».
C’è qualcosa che colpisce, però: "Va tutto bene", il suo primo romanzo aveva un taglio realistico, mentre quest’ultimo ha tutte le caratteristiche del post-moderno e si pensa anche a Pynchon.
«Sto per perdere altri ammiratori: non ho mai letto Pynchon, pur sapendo che è un grande autore. Per quanto riguarda le mie influenze e ispirazioni, posso dirle che mentre scrivevo ho letto Joyce, Melville e, soprattutto, la Bibbia. Per quanto concerne il cambio di stile è venuto il momento di raccontarle la genesi del romanzo. Era il 2004 e stavo passeggiando con mia moglie Erin, per distrarmi dopo le presentazioni di Va tutto bene. All’improvviso le dissi che avevo trovato il titolo del nuovo libro, ma ancora non sapevo di cosa parlasse. Lei mi rispose che era perfetto e che se Va tutto bene rappresentava la terra, il nuovo avrebbe avuto a che fare con il cielo. Il bello è che quel titolo non è stato mai più utilizzato, e abbiamo deciso che sarebbe rimasto un segreto tra noi due. Ma lo spirito del libro nasce da quell’intuizione di mia moglie».
Nel libro tutto lascia intendere che Daniel sia un suo autoritratto. Ma poi appare anche lei stesso…
«Daniel è la mia ombra, e rivendico la libertà di interagire con un mio doppio. In questo mi sono ispirato a Chaplin. Ma nello stesso tempo ho cercato di materializzare il rapporto tra un autore e la sua creazione, e sul fatto che il libro diventa vita. Come vede torniamo alla Bibbia».
Colpisce molto la frase in esergo dal "Libro della Sapienza".
«È un modo per presentare il tema del libro e svelare un riferimento autentico e imprescindibile».
Lei è religioso?
«Certamente, ma non appartengo a nessuna religione organizzata o istituzionale. Lo sono nel senso che esiste una ragione per tutto, e io sono alla continua ricerca del senso ultimo dell’esistenza. Non vedo divergenza tra fede e ragione, e credo nella compassione».
Quale è oggi il ruolo della religione?
«Dopo decenni in cui si diceva Dio è morto, sono morte invece le ideologie che lo proclamavano. Oggi la religione ha ripreso un ruolo centrale, con tutte le degenerazioni del caso, a cominciare dal fondamentalismo».
Lei scrive "L’universo è un grande enigma e c’è bisogno di rimetterlo in ordine".
«La battuta che cita è proprio l’anelito religioso di cui parlavo, ma quello che ho scritto sull’universo si può applicare anche alla cultura, che spesso abbiamo dimenticato cosa sia, o alla bellezza».
A cosa si riferisce?
«A una latitanza di solida struttura culturale, sempre più diffusa, e, per quanto riguarda la bellezza, le faccio io una domanda: segue quanto sta avvenendo nell’arte moderna?».
Parlando delle intenzioni dell’Unione Sovietica riguardo alla Polonia, Winston Churchill usò una definizione rimasta celebre: "un indovinello avvolto in un mistero all’interno di un enigma".
«È quello che penso del mistero della vita, ma non arriverei a usare la stessa definizione riguardo a un’arte che ha scelto di perdere il senso della bellezza».
In un passaggio si parla della morte del padre.
«Si tratta di un archetipo classico, ma credo che risulti chiaro che cerco di affrontare cosa significhi invecchiare: come cambiamo e perché, con il passare del tempo».
Non meno importante il momento in cui viene rievocato l’11 settembre.
«È stato per me, come per tutti, un momento incredibilmente traumatico, e ovviamente lo è stato in particolare per gli americani. Ero appena laureato e vivevo già con Erin che in quel momento stava assistendo i nonni, malati. Nel ricordare quel giorno - caratterizzato da sensazioni e situazioni contraddittorie - ho lavorato sul senso di caducità e sgomento che mi hanno aggredito di fronte a un evento del genere».
Il suo romanzo è lungo 1600 pagine: insieme ad altri libri lunghissimi di recente pubblicazione appare un’altra pietra sulla tomba del minimalismo.
«Esito a darle una risposta, non sono così aggiornato: certo il minimalismo non è più di moda, ma non è detto che ritorni. Credo che anche in letteratura esistano cicli, che sono ben altra cosa rispetto alle mode».
Come è cambiata la scrittura nell’epoca dei tweet?
«Meno di quanto si possa pensare, almeno per quanto riguarda la vera letteratura. Aggiungo che non ho particolare simpatia per gli scrittori che abusano dei social media».
E il linguaggio dell’immagine? Ha cambiato la letteratura?
«Io credo che ogni linguaggio abbia una propria identità e dignità, ed è errato mescolarli. Tanto ne sono cosciente che in questo ultimo libro, invece di farmi influenzare ho preferito inglobare le immagini. Oltre a molto altro, ovviamente».