Tuttolibri, 7 marzo 2020
Una biografia romanzata di Jack London
Di una vita già romanzesca si può scrivere in molti modi. Quello più affascinante ha forse a che fare con l’ingombrante e misteriosa parola «destino». Con Figlio del lupo Romana Petri non si è limitata a cercare, comprendere, raccontare il destino – termine che torna spesso nel romanzo – di Jack London. L’ha in qualche modo annodato al proprio: la passione viscerale per lo scrivere, e l’innamoramento per l’autore del Richiamo della foresta – ereditato dal padre, cantante d’opera, il «ciclone» Mario Petri citato in epigrafe. La scintilla di un fuoco narrativo «preparato» (à la London) con cura e dedizione quasi estremiste.
Il London che Petri racconta è un uomo in lotta: con il mondo, con sé stesso, con la propria vocazione. Il suo motto è questo: divori o sei divorato. «Non aveva paura di niente e di nessuno» scrive Petri, e ci fa sentire, in pagine che letteralmente si arroventano, di quale ardore sia capace. Figlio adottivo, conosce il dolore dell’inadeguatezza, e cresce per combatterlo, per cancellarlo. Che sia strillone o cercatore d’oro nel Klondike, ogni suo gesto ha qualcosa del profeta e del titano. E l’unico vero collante fra le sue diverse avventure è la passione per le parole: «Annotava le parole e il loro significato su pezzi di carta che poi infilava nella cornice di legno dello specchio per poterle ripetere e imparare a memoria mentre si faceva la barba. Era arrivato anche a stendere dei fili in camera sua, ai quali appendeva altri foglietti tenendoli fermi con mollette da bucato, proprio come fossero panni stesi».
Sul comodino, i volumi degli scrittori che impara a leggere e ad amare; nella sua testa, l’immagine dello scrittore che a ogni costo vuole diventare. Scrive preso come da una smania, posseduto dalla sua stessa fantasia: febbricitante, tenuto sveglio da litri di caffè. Se la porta della fortuna non si spalanca subito sul fronte letterario, lui prende a spallate altre porte; si fida quasi solo dei cani e del suo istinto, batte palmo a palmo la strada che lui stesso ha spianato verso un socialismo «individualista». Colleziona fallimenti ma sa che dalle ceneri delle speranze possono nascere altre speranze; che dolore e voglia di vivere non sono in contraddizione, se la tua «forza grande» non ti abbandona.
È notevole il modo in cui Petri riesce a rendere con la sua prosa questa perenne tensione muscolare, l’esplosività di un corpo forte, nervoso e affamato, «il suo temperamento fosforico». «Mi sta venendo il dubbio che anche il cervello sia un muscolo» dice Jack. «Lo scrittore ribelle, il socialista, il vagabondo, il navigante, l’esploratore» stanno stretti nello stesso spazio fisico, e chi li rende ulteriormente irrequieti è un «antico bisogno d’amore».
Il successo editoriale non la placa. Petri racconta le traversie sentimentali di Jack, le sue fughe, i suoi ritorni. I guai in cui si caccia. Ma più che un romanzo biografico finisce per scrivere la biografia di una vocazione, della necessità di una vocazione. Quando Mabel, la prima moglie, chiede a Jack: «Devi per forza fare lo scrittore?», lo ferisce. London sa – e lo sa per via nietzschiana – che non ci si può sottrarre a sé stessi, che occorre diventare ciò che si è. Con una ostinazione, una coerenza e una fedeltà che, in fondo, sono la nostra unica eredità. «La fedeltà a te stesso è quel che rimane anche dopo la morte» scrive Jack in una lettera, reinventata nel romanzo. «Non credo esista nulla, ma in quel nulla te la porti dietro nella memoria di chi resta. Ogni passo fatto in vita influenzerà il ricordo che lasceremo di noi. Un uomo è tutto in ciò che fa».
Quando il corpo di Jack non risponde più alla sua volontà, è lì che il «figlio del lupo» comincia a morire. Ma la sua parabola lascia come un bagliore, la scia luminescente che fa brillare l’inchiostro con cui è scritto questo romanzo intensissimo.