Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2020  marzo 07 Sabato calendario

Intervista allo scrittore Özgür Mumcu

Aveva solo sedici anni Özgür Mumcu, quando suo padre Ugur, giornalista investigativo turco è stato ucciso in un attentato sotto casa, nel 1993. Da allora, per lo scrittore, giornalista e accademico di Istanbul è stato un percorso di crescita e ricerca sul tema della violenza e della libertà umana, che ha rischiato di pagare anche col carcere per una rubrica politica sul Paese dello strapotere di Erdogan (dall’accusa di diffamazione è stato assolto nel 2016). Ora, Mumcu pubblica in Italia il primo romanzo, La macchina della pace, un’avventura steampunk dai toni arguti e trasognati, che evade dal Ventunesimo secolo, per riportarci a cent’anni prima, in un’inquietante analogia col tempo di passaggio che stiamo vivendo. 
Perché ha deciso di ambientare "La macchina della pace" alla vigilia della Prima Guerra Mondiale, sul finire dell’Impero Ottomano, prima della Turchia moderna di Ataturk?
«Perché il momento che viviamo è molto simile agli anni che precedettero la Prima Guerra mondiale. Quel conflitto di cent’anni fa pose fine a una grande era di globalizzazione. Già all’epoca, la rivoluzione tecnologica, dei trasporti e della comunicazione, avevano accelerato i legami economici tra gli Stati, avevano rimodellato il mondo e l’avevano portato sull’orlo della crisi. Sappiamo che è finita male. Ambientare la storia in quel periodo di passaggio, mi ha dato l’opportunità di toccare una vasta gamma di idee che trovo importanti per capire l’oggi. Credo che il mondo stia attraversando un tumultuoso periodo di mezzo tra una grande epoca storica e un’altra. La Turchia è il risultato diretto di quel periodo lontano, i turchi sono più interessati alla Prima Guerra Mondiale che alla Seconda, che hanno saggiamente evitato».
Come immagina lei la "prossima era"? 
«È molto difficile intravedere cosa sarà l’epoca che ci aspetta, ma si notano con chiarezza le similarità col passato. Ieri, c’erano la macchina a vapore e il telegramma. Oggi abbiamo Internet e l’intelligenza artificiale. Ieri, era l’epoca della nascita del pensiero moderno e secolarizzato, della ricerca di una nuova identità. Oggi, nel vuoto delle ideologie, la religione non impatta più davvero sulla vita delle persone: mandiamo gli shuttle sulla Luna, ma viviamo anche una nuova età medievale, per altri versi. Perduta la fiducia nell’ordine liberale, nel mercato globalizzato che avrebbe portato alla fine della Storia e comunque più democrazia, si è capito che la premessa di quel sistema era sbagliata. Per la prima volta, le generazioni dei padri sono più ricche di quelle dei figli, sono sorte le gravi diseguaglianze che vediamo, anche intergenerazionali. Oggi come allora, la reazione da destra è quella classica dei periodi di crisi: autoritarismo, xenofobia, reazione agli immigrati, è ciò che sta capitando in tutto il mondo». 
Dall’ingenuo protagonista Celal alla sua fiducia in un marchingegno che impone la pace, le forze del romanzo spingono tutte verso una sorta di paradiso senza guerra. L’opposto della Turchia di oggi, militarmente presente in ogni teatro di conflitto mediorientale. Non ci resta che rifugiarci in Don Chisciotte?
«Insegno all’Università "giustizia di transizione", cioè come le società trovano la pace dopo le guerre civili e le dittature. La guerra, la pace e l’intermediazione mi hanno sempre affascinato. Con la creazione della Macchina della pace ho cercato di giocare con l’idea che si possa imporre la pace usando metodi giacobini. È giustificato scartare il libero arbitrio per un buon risultato oggettivo? Non ho risposte chiare a questa domanda. Ma un esercizio di pensiero sotto forma di romanzo mi ha divertito. Così, invece di "questo è quanto", ho preferito "e se". Sono un critico dichiarato della politica estera di Erdogan. Ma a essere sinceri, la Turchia non è l’unico Paese presente nelle aree di conflitto mediorientali. Ha un confine molto lungo con Siria e Iraq. Si può dire che l’intervento della Turchia è più giustificato che quello di altri Paesi, lontani chilometri dalla regione. Certo, mi oppongo al modo in cui il mio Paese partecipa a queste guerre e alle alleanze locali che costruisce».
La fuga in un tempo lontano e pacifico è anche l’occasione per denunciare, non direttamente, l’illiberalità che si vive in Turchia?
«Quando ho scritto il libro non ho davvero pensato alle politiche del governo. Il regime di Erdogan, o qualsiasi altro, sono temporanei. Domande generali sulla natura umana e sulle dinamiche delle società mi interessano più di questa stagione di illiberalità che stiamo attraversando. La censura di Erdogan la affronto da 10 anni sulle colonne dei giornali. Non volevo che la Macchina della Pace fosse macchiata dall’analisi della politica del quotidiano, che ha già preso una parte importante del mio tempo, mentre scrivevo il libro. Questo regime non mi impressiona abbastanza da plasmare la mia immaginazione».
Come è cambiato il suo Paese dalle proteste dei giovani di Gezi Park ai giorni nostri?
«È sorprendente la sentenza di assoluzione degli imputati di Gezi. Quello del 2013 era un movimento sociale spontaneo. E io ero, come milioni di altri connazionali, per le strade. Ci ha mostrato che non siamo così pochi, come alcuni pensavano. Ha anche dimostrato che la Turchia ha una popolazione progressista e pluralista molto significativa. Ha contribuito a stabilire l’idea che la Turchia è ben altro da come viene percepita. Ora, naturalmente, c’è una sensazione di sconfitta. Molti giovani istruiti cercano un futuro fuori dal Paese. Ma d’altra parte, il carattere pluralistico di Gezi Park è uno dei motivi dell’enorme sconfitta dell’Akp a Istanbul, Ankara e altre grandi città nelle elezioni comunali degli ultimi anni. L’opposizione ha imparato a unirsi, nonostante le differenze. Quelle proteste hanno risvegliato la democrazia e imposto il dialogo delle parti secolarizzate della società con alcune fazioni islamiste o con il potere sempre più consolidato. Lo spirito di Gezi è ancora presente e rappresenta il futuro della Turchia molto più del regime attuale».
A gennaio molti colleghi dei giornali d’opposizione, del quotidiano "Cumhuriyet" per cui lei è editorialista, non hanno potuto rinnovare il tesserino da professionisti. Come si lavora sotto la scure di una censura totalizzante?
«Qui in Turchia è il governo che rilascia le tessere alla stampa. Le licenze di alcuni giornalisti di spicco sono state cancellate o non rinnovate. Non c’è bisogno di lamentarsi. Non trovo ammissibile che gli Stati possano decidere chi è un giornalista e chi no. Dovrebbero essere i giornalisti e il loro pubblico a deciderlo. La revoca delle licenze, comunque, è un segnale forte che quei colleghi sono stati buoni giornalisti. Se fossi al loro posto, sarei onorato».
Anche lei ha rischiato di finire in prigione. 
«Oggi, quando scrivi e non rischi il carcere, significa che o sei un sostenitore del governo o non fai bene il tuo lavoro. Naturalmente, c’è molta autocensura nel nostro mestiere. Ma c’è un lato positivo: bisogna davvero levigare il proprio stile, per portare avanti i propri argomenti. Questi rischi hanno migliorato enormemente la mia scrittura».
La sua storia familiare è conosciuta in tutto il mondo: "La gente non dovrebbe sentirsi responsabile solo di ciò che dice, ma anche dei propri silenzi", ha detto Ugur Mumcu, e sognava una Turchia indipendente, prima di essere ucciso, nel ’93. Che rapporto ha ancora con questa figura di intellettuale libero, che era suo padre?
«Mio padre è una presenza imponente e ancora una leggenda in Turchia. A 27 anni dalla sua morte, centinaia di persone si riuniscono ancora oggi davanti alla sua casa, per commemorarlo. È stato lui a portare in Turchia il moderno giornalismo investigativo. Questo lo ha reso il bersaglio di molti gruppi potenti. È stato un testimone esperto del caso Papa-Agca. Le sue indagini andavano oltre i confini della Turchia. Ho sempre avuto a cuore i principi che aveva e ho sempre agito di conseguenza. È difficile formarsi sotto una tale ombra, soprattutto dopo la sua tragica fine. Per questo, ho aspettato fino a 30 anni, prima di scrivere, fino a quando non sono stato pronto. Spero ancora di non aver fallito troppo».