Corriere della Sera, 7 marzo 2020
Gli 80 anni di Ottorino Flaborea
Ha compiuto 80 anni Ottorino Flaborea da Concordia Sagittaria, ma anche da Olimpia, Grecia: «Ci vado d’estate: amo il mare, faccio il contadino e respiro aria olimpica». Flabo – soprannome di battaglia – è il Capitan Uncino del nostro basket, il campione silenzioso ma insostituibile che fece del tiro in gancio una specialità. Il Jabbar italiano? «No, dai: la verità è più semplice». Spieghiamola: «Quando ero ancora a Biella, con i miei due metri facevo la differenza. Poi la statura dei centri aumentò e dovetti adattarmi: con quel tiro scavalcavo chi era più alto».
Cresciuto cestisticamente in Piemonte, passò a una Varese che litigava e che si stava buttando via («Chiesi di andarmene: c’era un vero casino…») ma che poi l’avrebbe richiamato per trasformarlo in una colonna della Grande Ignis. «È come se quel nome l’avessi tatuato: oggi seguo Venezia e Trieste, vicine a casa, ma il cuore è a Varese. Eppure ho dovuto passare anche momenti duri: quando decisi di lasciare, Giovanni Borghi voleva spedirmi a Udine in B. Avrei rischiato di perdere i Giochi del 1968: così tenni duro. Dopo tre giornate ci fu l’occasione Napoli e la presi al volo. Esordii proprio a Varese: vincemmo e fu il finimondo. Quell’anno Cantù centrò lo scudetto, ma lo avrebbe meritato Napoli: ci rubarono la partita di Livorno; avanti di un punto, i 2 secondi residui durarono una vita. Finché fischiarono fallo a Gavagnin e dalla lunetta fummo sorpassati».
Per spiegare la dominanza delle varie Ignis, Capitan Uncino arriva a una sintesi: «Eravamo una famiglia». Quello spirito resiste ancora: alcuni ex compagni avevano organizzato una gita in pullman per festeggiarlo. Una «zingarata» rovinata dal coronavirus. Ma fa lo stesso: «Avrò di nuovo l’occasione per ringraziarli di avermi fatto vincere», osserva. Ma anche per ringraziare Flabo, definito l’«inventore» di Dino Meneghin. «Dino lo ripete: mi onora, ma non è così. Ero lo “zio” che dava consigli, l’ho fatto pure con lui: ma Meneghin era un campione che quando esplose diventò inarrestabile. Era troppo nervoso, usciva presto per 5 falli: gli insegnai la calma».
Parlare con Capitan Uncino significa ripercorrere pagine di un basket sempre emozionante, anche se è diverso da quello di oggi. Scorrono i ricordi, inclusi quelli spiacevoli («Ho disputato tre Olimpiadi, ma è sempre andata male: nel ’68 avremmo battuto la Jugoslavia se un compagno non avesse voluto schiacciare, mancando il colpo e regalando la palla a un avversario»), i momenti storici («Al Mondiale 1970 arrivammo quarti, ma battemmo per la prima volta gli Usa»), le litigate con coach Nikolic per il vino a tavola («Una volta lo feci mettere nelle bottiglie della Coca Cola, ma lui sgamò il trucco») e infine un episodio poco noto: «Nel 1960 mi voleva Bogoncelli all’Olimpia Milano. Io rinunciai». La sua affinità era con il gialloblù.