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 2020  marzo 07 Sabato calendario

Javier Cercas racconta il nuovo romanzo

C’è anche un po’ di teatro, se gli incontri non sono soltanto dei riti di passaggio, e Javier Cercas sembra un attore shakesperiano – o almeno un illuminato interprete di sé stesso – quando si impossessa della mia copia di Terra Alta — il libro con cui è rinato uno scrittore che non aveva nessun apparente bisogno di rinascere – e la apre al punto giusto, ad occhi semichiusi, quasi guidato a distanza da quella forza riflessiva che mette in tutte le cose: «Si chiamava Melchor – legge – perché la prima volta che la madre l’aveva visto, appena uscito dal suo ventre e sgocciolante sangue, aveva esclamato tra singhiozzi di gioia che sembrava un re magio. Sua madre si chiamava Rosario e faceva la puttana». 
Inizia cosi il secondo capitolo di un romanzo (Guanda lo pubblica nella bella traduzione di Bruno Arpaia) che si muove attraverso due percorsi temporali: il dipanarsi di una trama «gialla», legata a un crimine terribile (l’assassinio dei ricchi proprietari di un’azienda) sul quale il giovane Mosso d’Esquadra Melchor Marín indaga (nella Terra Alta, appunto, una zona della Catalogna sonnolenta ma densa dei fantasmi di un passato che non vuole estinguersi) e lo svelamento progressivo di un personaggio educato alla scuola infernale della vita, eroe dello scontro a fuoco di Cambrils in cui furono eliminati i terroristi islamici dell’attentato di Barcellona dell’agosto 2017. «Mentre tornavo a casa dal mio studio, mi e venuta in mente quella frase, la frase che ho appena letto, che ha una musica totalmente diversa dai miei libri precedenti. C’è tutto: il sangue, l’allegria, il sesso, il dolore. Ho iniziato a lavorare. La sua furia è la mia, la sua sete di giustizia è la mia. Lui è una parte segreta di me. Melchor sono io». 
Siamo nello studio da cui Cercas rientrava a casa quella sera d’estate, al terzo piano di una palazzina bianca, in una piccola strada di Gràcia, il quartiere dove Barcellona conserva anche la sua anima minore. Non lontano, in Plaça del Diamant, la statua di Mercè Rodoreda, sembra voler accompagnare con lo sguardo le vite dei passanti. La prima cosa da fare, appena arrivati, è congratularsi per la vittoria del Planeta, il super-premio spagnolo che avvicina il grande pubblico alla letteratura. È stata una grande soddisfazione, accolta con l’ironia di sempre. «Molte persone che mi è capitato di incontrare in questi anni – racconta divertito – mi guardavano con un misto di compassione e solidarietà. Non sapendo che bisognava presentarsi e che io non mi ero mai presentato mi dicevano: non abbia paura, anche lei un giorno vincerà il Planeta». Eccoli accontentati, si potrebbe dire. Ma la riflessione si fa più ampia ed è una risposta indiretta a tutti quelli che «alzano le sopracciglia». «La cosa migliore che può accadere a un libro – continua – è diventare popolare parlando di cose rilevanti e importanti per la gente. È ridicolo pensare che solo i romanzi per pochi siano buoni romanzi. Il mio libro ideale è facile da leggere e complesso da capire: un testo che, come osservava Italo Calvino, non finisca mai di dire le cose che ha da dire». Anche se è un thriller, o confina con il thriller, come Terra Alta. «Non esistono generi minori o maggiori, esistono forme migliori o peggiori di attraversare i generi».
Tra la confusione luminosa di queste carte che ingombrano tavoli e sedie – e, tra un passo e l’altro, nelle strade della città che sale incerta dopo le geometrie dell’Eixample – è maturata quindi una svolta inattesa all’interno di un unico cammino. «Dopo aver pubblicato Il sovrano delle ombre — ricorda Cercas – mi sono detto che avevo finalmente scritto il primo libro che sin dall’inizio volevo scrivere, cioè una storia legata alla mia famiglia, e che avevo fatto quello che avevo sempre voluto fare. Ora dovevo cambiare: il peggior rischio che può capitare a uno scrittore nel corso della sua carriera è ripetersi, diventare un imitatore di sé stesso. Non ho fatto romanzi senza finzione perché pensavo che la finzione fosse morta, ma perché volevo porre delle questioni». 
Dietro queste parole c’è un paradosso, forse anche una nascosta voglia di stupire. Terra Alta — che per l’autore di La verità sul caso Savolta Eduardo Mendoza è non a caso il più «assolutamente suo» dei romanzi di Cercas – è infatti radicalmente fedele, pur nelle differenze, a un’idea di letteratura che abbiamo imparato ad amare in questi anni. Elencare le similitudini, senza svelare l’intreccio, diventa abbastanza semplice: la ricerca di un eroe che non vuole esserlo, come il Miralles dei Soldati di Salamina che risparmia la vita al fondatore della Falange, Rafael Sánchez Mazas, la presenza del passato nel presente (senza la quale «il presente è mutilato»), il concetto che la storia ufficiale non sia la vera storia, perché «la verità è sempre nascosta». «Il romanzo è una domanda senza risposta, qualcosa che distrugge le nostre certezze. E una partitura che il lettore interpreta a suo modo». 
Anche lui è un lettore, come dimostrano i saggi riuniti nel volume I l punto cieco (Guanda). L’amore per la letteratura è uno dei fili conduttori di Terra Alta, interni ed esterni al testo. Melchor scopre sé stesso attraverso il fascino imprevisto del romanzo, in primo luogo I Miserabili, diventando poi, quasi per uno scherzo del destino, un intreccio tra Jean Valjean e Javert. Questo agente di polizia dal passato oscuro – pieno di contraddizioni, legato indissolubilmente alla realtà – ha acquistato una tale forza nell’immaginario del suo inventore che non sembra destinato a scomparire. «Quando finisco un libro ne prendo le distanze. Adesso è tutto diverso». Aspettiamo. Intanto, per definire meglio un personaggio di cui «è innamorato» serve un verso di Jorge Luis Borges, che l’autore diAnatomia di un istante cita a memoria, tratto da Frammenti di un Vangelo apocrifo: «Beati coloro che hanno il cuore puro perché vedono Dio». Furore da una parte, cuore puro dall’altra. Forse non ci sarebbe bisogno di altro, come infatti accade, perché tutto questo rimanga impresso nella nostra memoria distratta. Borges è lo spunto per ribadire, in questo momento di cambiamento fedele, che uno scrittore deve essere sempre «riconoscibile» anche se affronta temi e generi differenti. Parlando con Olga, la bibliotecaria che ha conosciuto e sposato dopo il suo esilio da Barcellona, il protagonista di Terra Alta dice: «I poeti mi sembrano romanzieri pigri». Quando gli ricordo quella pagina Cercas sorride e aggiunge: «Un buon romanziere è un poeta anche se non ha mai scritto una poesia». 
È il momento di lasciare questo ricercatore di segreti, vagamente inattaccabile dalla morsa degli anni che passano. Prima di salutarci Cercas prende dal frigorifero un bottiglione appannato di coca-cola: un brindisi analcolico, un balsamo per il lungo parlare. Dalle finestre si intuisce appena tutto quello che Melchor guarda, attraverso un telescopio, nella città dove è costretto a ritornare alla fine della nostra storia, quando i due sentieri della narrazione arrivano a sovrapporsi: «La Torre Glories, con la sua forma da supposta e la pelle ricoperta di squame illuminate, blu e rosse; quasi di fronte, la cicatrice aperta di calle Marina, che culmina nella Sagrada Família; sulla sinistra il massiccio d’ombra della Ciutadella; e in fondo quello della Sierra di Collserola, con il parco delle attrazioni al buio sulla cima del Tibidabo, come lo scheletro tenebroso di una gigantesca astronave arenata all’orizzonte». Ma nella sera barcellonese tutti gli scheletri tenebrosi, che non sarebbe difficile immaginare, hanno smesso di essere sinistri: i libri cambiano il modo di conoscere il mondo e sentirli raccontare da chi li ha scritti è come assistere alla ripetizione di un miracolo. Terra Alta è un amuleto che ci protegge dalla paura del futuro.