Corriere della Sera, 7 marzo 2020
Rebekah e lo schianto di WeWork
Rebekah Paltrow non ha sfondato nel mondo del cinema come la cugina Gwyneth, nonostante ci abbia provato, ma i suoi 42 anni di vita aspettano solo la tastiera di un bravo sceneggiatore per diventare un film. Diversamente dalla pellicola che è valsa l’Oscar alla più nota parente, «Shakespeare in Love», quella sulla vita di Rebekah non racconterebbe la storia di una musa strappata a un artista destinato a entrare nella storia, ma la parabola di un’eccentrica coppia che in dieci anni è riuscita nell’impresa di fallire trasformando un milione di dollari in un miliardo di patrimonio e lasciando tracce in più di cento città del mondo.
Milano compresa, dove in questi giorni di spaesamento da coronavirus nella sede di WeWork riecheggia il silenzio delle scrivanie svuotate dal telelavoro. Si ripopoleranno, perché dopo che i piani per la quotazione in borsa hanno svelato il buco da quasi due miliardi all’anno scavato dai Neumann, la società che fornisce di spazi di lavoro condivisi è passata sotto il controllo l’investitore giapponese SoftBank. E i due sono volati a Tel Aviv, dove vivono attualmente.
Rebekah Paltrow, nata a New York «avvolta nella ricchezza e nella cattiva energia», come ha scritto Moe Tkacik, autrice del profilo pubblicato sul sito americano Bustle, di WeWork è la cofondatrice. La prima finanziatrice, con il milione donatole dalla famiglia e ributtato nell’impresa, e la burattinaia – altro che musa – di Adam Neumann, cofondatore ed ex amministratore delegato di WeWork.
Laureata in business e buddismo e passata dagli uffici allo yoga (metodo Jivamukti), Rebekah aveva impiegato poco a inquadrare Adam: «Nel giro di cinque minuti mi ha guardato negli occhi e mi ha detto: Ogni singola parola che esce dalla tua bocca è falsa», racconterà poi lui. Le avrà forse ricordato papà Bob, che verrà condannato per evasione fiscale. Secondo Rebekah, il padre aveva reagito alla scomparsa dell’altro figlio, morto di cancro a 23 anni. Quando perse il fratello, lei di anni ne aveva 11 e diventò vegetariana. Dopo il college e dopo e dopo una fuga in India le si aprirono le porte dell’organizzazione spirituale Kabbalah Centre di Los Angeles, che si aggiungerà poi alla lista delle dispute legali vicine a Rebekah. Di quel periodo dirà: «Stavo studiando la vita e volevo capire chi ero prima di aprirmi a un’altra persona».
Quando ha conosciuto Adam era pronta: gli ha fatto un corso accelerato di quello che chiamava il «gioco della vita» (parole di Tkacik). Lo ha convinto a smettere di fumare e a diventare vegetariano. Il giochino di WeWork è partito a New York con una valutazione subito stata gonfiata da una promessa di acquisto del 33% delle quote che mai si è materializzata. La famiglia Paltrow ha continuato a iniettare denaro, sia quella di sangue sia quella del Kabbalah Centre, dove Adam ha incontrato molti dei primi investitori, fra i quali l’attore Ashton Kutcher e l’investitore di private equity Steven Langman.
Mentre Adam magnificava le potenzialità di cantieri polverosi e si presentava come un nuovo Steve Jobs, Rebekah organizzava feste da tre giorni annegate nella tequila, che davano l’idea di un’impresa vincente. «La nostra intenzione non è mai stata quella di trovare un modo per fare più soldi, ma solo di espandere una buona vibrazione al pianeta», allargava le braccia. L’unica preoccupazione finanziaria legata a WeWork era piazzare le scrivanie, anche offrendo lunghi periodi gratuiti o firmando contratti per sedi che ancora non esistevano.
Già dal 2013, come ha rivelato il Wall Street Journal, l’approccio zen era stato sostituito da più concreti e lussuosi acquisti milionari fra Greenwich Village e la California. La priorità adesso è tornare a muoversi in edifici del genere, a New York. Altro che buone vibrazioni.